Articolo di LORENZO CALABRESE
Pubblicato il 24.04.2022; tutti i diritti riservati.

Si propone di seguito un approfondimento documentato relativo alla ricostruzione di un quaternus interamente vergato e rilegato a mano da Lorenzo Calabrese intorno ai primi anni 2000.
Pur comparendo con frequenza nei nostri eventi di living history, così come nelle iniziative didattiche, è di fatto la prima volta che ci accingiamo a presentarne i dettagli di progettazione e fabbricazione.

Segue un testo realizzato dallo stesso artefice del manufatto; ringraziamo Lorenzo Calabrese per aver acconsentito agli omissis e adattamenti della versione originaria.

SCHEDA SINTETICA

Materia: cartaceo

Misure: legatura 260×175 mm; fascicoli 245×173 mm

Consistenza: cc 25, numerazione coeva a penna sul margine superiore dx a partire da c 7r; bianche le cc 1v, 4v, 5v, 24r, 25r, 25v

Struttura: un ternione mutilo della c 6, più un binione, più un binione, più un binione, più un ternione, più un bifoglio

Rigatura: rettrici a colore (inchiostro), rigatura a piombo limitata allo specchio di scrittura

Scrittura: minuscola documentaria di base umanistica a diversi gradi di corsivizzazione, quattro mani

Ornamentazione: miniatura al tratto in inchiostro alla c 4r

Legatura: membranacea, corregge in cuoio (3), chiusura ad alamaro con fermaglio in osso

Descrizione interna: miscellanea di ricette cosmetiche e mediche

La legatura: versione I

La base d’ispirazione della prima legatura del ricettario è costituita da quanto in uso nello specifico nella cancelleria sforzesca per i registri delle missive conservati presso l’Archivio Storico Civico di Milano (ASCMi).

ASCMi, Registro Cancelleria Sforzesca, anni 1426 – 1436 (Bologna 1988, 31)

Si tratta di legature in pelle scamosciata su piatti presumibilmente in cartone, rafforzata all’esterno con inserti in pelle legati con strisce di pergamena.

L’uso di piatti coperti da pelle scamosciata è altresì noto per manoscritti estranei all’ambito puramente funzionale dei ricettari / formulari.

Biblioteca Nazionale Braidense, ms. A D XII 37 (Macchi 2002, 94)

Lo stato di conservazione dei registri conservati presso l’Archivio non permette di determinare la natura della legatura: le carte di guardia unite ai piatti di coperta impediscono la visione del dorso dei registri, e l’ispezione a vista per squinternamento e al tatto è poco risolutiva.

Date le circostanze limitanti, è stata sviluppata la soluzione ricostruttiva di una legatura per cucitura dei fascicoli su nastri di pergamena, comunque attestata per il periodo coevo e precedentemente.

Nel corso di realizzazione dell’ipotesi è stato commesso un duplice errore: l’impiego di una pergamena eccessivamente sottile e di un filo di canapa altrettanto esile quanto diametro, il ché ha comportato il taglio della pergamena e la perdita di coesione tra fascicoli e piatti di coperta.

La legatura: versione II

Abbandonato il tentativo di realizzazione del medesimo tipo di legatura, la scelta è ricaduta su di una tipologia estremamente diffusa per un prodotto di largo uso e che trova riscontri nei libri di mercatura, nei libri di ricordanze o di famiglia, nelle imbreviature notarili tanto da non assumere una definizione univoca quanto derivarle dall’uso cui sono destinati.

Alcuni manoscritti rilegati conservati presso il Fondo Datini di Prato (www.istitutodatini.it)

Studi monografici codicologici su tale tipologia di manoscritto sono rari, solitamente inseriti in un inquadramento più ampio di analisi del documento nel quale prevale nettamente un interesse istituzionale ed economico per il contenuto (cfr. ad esempio Ricci, 2005; Pandimiglio, 2006).

Una descrizione standard di tale tipologia di legatura si trova in FRANCA PETRUCCI NARDELLI, La legatura italiana. Storia, descrizione, tecniche (XV-XIX secolo), La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989, pp. 25-26, richiamata in FRANCA ALLEGREZZA, La diffusione di un nuovo prodotto di bottega. Ipotesi sulla confezione dei libri di famiglia a Firenze nel Quattrocento, in «Scrittura e Civiltà» XV (1991): «… una robusta coperta floscia li protegge, un foglio di pergamena piuttosto pesante, con risvolto piegato e cucito con corregge di cuoio – di solito tre, applicate orizzontalmente; una fibbia o un alamaro inseriti nella correggia centrale ne permettono la chiusura …».

Il modello di riferimento per la realizzazione è stato il libro conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Carte Strozziane, II 14 la cui copertina è riprodotta nel citato saggio di Allegrezza (tavv. 2, 3, pp. 258-259).

Se rare sono le descrizioni codicologiche, ancora più episodica è l’attenzione ai sistemi di legatura dei fascicoli, sia tra loro, sia con il piatto di coperta a rendere solidale l’intero manoscritto.

Mediamente si danno due soluzioni: il filo della legatura cuce direttamente i fascicoli al dorso della pergamena che costituisce il piatto di coperta, eventualmente rafforzata all’esterno da ulteriori inserti membranacei (Szirmai, 1999, 297).

Alternativamente, tali rinforzi si collocano tra il dorso dei fascicoli e la pergamena del piatto (Szirmai, cit., 305), soluzione questa adottata nella realizzazione del manoscritto, andando così a rafforza-re la plicatura dei fascicoli indebolita nel primo tentativo di rilegatura.

Per la chiusura ad alamaro i riferimenti sono stati tratti dai manoscritti leonardeschi, segnatamente Bibliothèque de l’Institute de France, ms. 2173 codice B, ms. 2179 codice H, ms. 2180 codice I.

Bibliothèque de l’Institute de France, ms. 2179 codice H

I materiali

La pergamena è lavorata secondo canoni originari connotandosi per il mantenimento di una colorazione naturale senza ricorso a tecniche di sbiancamento; similmente l’osso dal quale è ricavato il fermaglio dell’alamaro.

Frammenti di pergamena ricavati da foglio manoscritto sono utilizzati a rinforzo della plica del foglio centrale dei fascicoli.

Pergamena è similmente utilizzata nelle cuciture delle pieghe dei piatti della legatura.

In questo caso si tratta di pergamena di spessore inferiore al quella di coperta; le strisce prima della applicazione sono state leggermente inumidite: l’essiccazione successiva alla messa in posizione e alla torsione ne garantisce la resistenza.

Il filo impiegato è in canapa; la carta è di cotone a fronte della impossibilità di reperire tramite i canali commerciali normali della carta prodotte da stracci di lino, indipendentemente dalla annosa questione di quanto cotone potesse essere presente in percentuale nella produzione cartaria, in questo caso della metà del secolo XV.

Ulteriore riserva quanto a storicità dei materiali impiegati riguarda il cuoio utilizzato per le corregge: ignoto se la concia sia stata effettuata o meno con sostanze naturali.

Il testo

Il manoscritto raccoglie ricette cosmetiche e di medicina tratte dalle edizioni de Il manoscritto veneziano (Tosatti, 1999) ed Experimenti de la ex.ma s.ra Caterina da Furlj, matre de lo inllux.mo signor Giouanni de Medici (Pasolini, 1894).

Le carte sino alla 17r del manoscritto raccolgono ricette cosmetiche tratte dalle due edizioni; dal ricettario di Caterina Sforza il pretesto per denominare convenzionalmente il manoscritto come “Catelino”.

Le ricette mediche, con esclusivo interesse per gli aspetti ginecologici, sono tutte derivate da Il manoscritto veneziano.

Le strofe riportate alla c 5r sono invece tratte direttamente da fonte archivistica: Archivi di Stato di Milano (ASMi), Fondo Notarile, cart. 2240, 1467 giugno 13, imbreviature di Galeazzo Bolla q. Cristoforo, ma sulla diffusione del testo cfr. Palmero 2002.

Per la scrittura si è optato per una minuscola documentaria di impianto umanistico, a diversi gradi di corsivizzazione.

CV Lorenzo Calabrese

L.C. inizia ad interessarsi alla storia e alla pratica delle scritture medievali nel 1980 come autodidatta. Successivamente amplia e perfeziona l’interesse sul piano scientifico a livello universitario, estendendolo alle discipline della diplomatica, paleografia, codicologia e miniatura. Autonomamente sviluppa una ricerca finalizzata alla sperimentazione della riproduzione e all’utilizzo delle tecniche e dei materiali scrittori medievali.

Ha svolto attività divulgativa nei settori della storia della scrittura e del libro presso istituzioni pubbliche e private, nonché partecipato ad attività di Ricostruzione Storica.

Bibliografia

Allegrezza, 1991: Allegrezza Franca, La diffusione di un nuovo prodotto di bottega. Ipotesi sulla confezione dei libri di famiglia a Firenze nel Quattrocento, in «Scrittura e Civiltà» XV (1991), pp 247-265

Bologna, 1998: Bologna Giulia, Legature. Dal codice al libro a stampa. L’arte della legatura attraverso i secoli, Mondadori, Milano

Macchi, 2002: Macchi Federico (a cura), Arte della legatura a Brera. Storie di libri e biblioteche. Secoli XV e XVI, Linograf, Cremona

Palmero, 2002: Palmero Giuseppe, Il corpo femminile tra idea di bellezza e igiene. Cosmetici, balsami e profumi alla fine del Medioevo, in Atti del II convegno della Scuola di Specializzazione in Scienza e Tecnologia Cosmetiche, dell’Università di Siena, Siena 18-19 ottobre 2002, Siena

Pandimiglio, 2006: Pandimiglio Leonida, I libri di famiglia e il Libro Segreto di Goro Dati, Edizioni dell’Orso, Alessandria

Pasolini, 1894: Pasolini Pier Desiderio (a cura), Experimenti de la ex.ma s.ra Caterina da Furlj, matre de lo inllux.mo signor Giouanni de Medici, Tipografia D’Ignazio Galeati e figli, Imola

Petrucci, 1984: Petrucci Armando, La descrizione del manoscritto. Storia, problemi, modelli, Nuova Italia Scientifica, Roma

Petrucci Nardelli, 1989: Petrucci Nardelli Franca, La legatura italiana. Storia, descrizione, tecniche (XV-XIX secolo), La Nuova Italia Scientifica, Roma

Ricci, 2005: Ricci Alessio, Mercanti scriventi. Sintassi e testualità di alcuni libri di famiglia fiorentini fra Tre e Quattrocento, Aracne, Roma

Szirmai, 1999: Szirmai J.A., The Archaeology of Medieval Bookbinding, Ashgate, Aldershot

Tosatti, 1999: Tosatti Bianca Silvia (a cura), Il manoscritto veneziano. Un manuale di pittura e altre arti – miniatura, incisione, vetri, vetrate e ceramiche – di medicina e alchimia del Quattrocento, Acanthus, Pioltello – Milano

Manoscritti citati

Biblioteca Nazionale Braidense, ms. A D XII 37

Biblioteca Nazionale Centrale (BNCFi) di Firenze, codice Palatino 556

Bibliothèque de l’Institute de France, ms. 2173 codice B

Bibliothèque de l’Institute de France, ms. 2179 codice H

Bibliothèque de l’Institute de France, ms. 2180 codice I

BNF Français 159

British Library ms. Sloane 416

Fonti archivistiche citate

Archivio di Stato di Milano (ASMi), Fondo Notarile, cart. 2240, 1467 giugno 13, imbreviature di Ga-leazzo Bolla q. Cristoforo

Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Carte Strozziane, II 14

Archivio di Stato di Milano (ASMi), Fondo Notarile, cart. 611, imbreviature di Giacomo Monza q. Balzarino

Archivio di Stato di Prato, Fondo Datini

Archivio Storico Civico di Milano (ASCMi), registro cancelleria sforzesca, anni 1426 – 1436

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 14.05.2021; tutti i diritti riservati.
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Anche ben oltre i limiti cronologici del XV secolo, i manufatti ceramici rappresentano un elemento imprescindibile nel mondo ricostruttivo, non soltanto per i legami con la realtà storica che desideriamo riproporre, ma soprattutto per la loro intrinseca funzionalità quotidiana.

Tralasciando il pentolame da fuoco, il cui impiego richiede l’apprestamento di una cucina e di un focolare, la semplice ceramica da mensa è il compendio naturale di ogni banchetto e di ogni mescita, così come ciotole e scodelle sono un’alternativa più igienica (e storicamente inappuntabile) alle stoviglie in legno.

Non è ovviamente questa la sede per addentrarci nel merito della produzione ceramica del passato, perché troppe sono le tipologie susseguitesi nei secoli, con caratteristiche talvolta così chiare da permetterne una precisa collocazione produttiva geografica e temporale.
Ciò che qui preme, semmai, è indicare alcuni dei punti che rendono assai complessa una replica moderna dei manufatti antichi: problematica certamente viva in ogni ambito ricostruttivo (si pensi per esempio ai tessuti o alla difficile reperibilità di certi legnami stagionati e di giusta misura), ma particolarmente acuta quando si confrontino i prodotti di botteghe moderne e le ceramiche di antiche officine.

Piatto faentino in maiolica con profilo muliebre, famiglia gotico floreale, terzo quarto del XV secolo (coll. privata); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Piatto faentino in maiolica con profilo muliebre, famiglia gotico floreale, terzo quarto del XV secolo (coll. privata); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Il lavoro del ricostruttore storico, è risaputo, si scontra quotidianamente con la chimera di una “perfezione totale”, oggettivamente irraggiungibile, e la necessità di un compromesso sulla storicità delle repliche presentate: si tratta pertanto di un costante work in progress, ovvero di un processo di avvicinamento alla materialità del passato, condizionato tuttavia dalla disponibilità di materie prime adeguate e di strutture produttive idonee a ripercorrere i passi degli antichi artefici, ponendo il piede sulle medesime orme.

Tornando alla ceramica e limitandoci alle repliche bassomedievali, il principale limite alla loro perfetta ricostruzione è dato dalla difficoltà di reperimento di materie prime adeguate.

E’ risaputo che ogni ceramica rivestita subiva almeno due processi di cottura: il primo a corpo “nudo” e il secondo finalizzato a fondere la materia di rivestimento. La seconda cottura lasciava tuttavia scoperte alcune zone del biscotto, specie sotto il piede, a testimoniare la natura delle argille impiegate nella foggia. Nonostante i processi di depurazione cui venivano sottoposte, queste argille conservavano spesso degli inclusi e avevano colorazioni e caratteristiche specifiche a seconda degli ateliers d’origine.

Piede di panata orvietana o viterbese in maiolica arcaica (seconda metà XIV secolo; cfr Sconci 2011, p.74, n.88) a confronto con una replica moderna di maiolica arcaica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Piede di panata orvietana o viterbese in maiolica arcaica (seconda metà XIV secolo; cfr Sconci 2011, p.74, n.88) a confronto con una replica moderna di maiolica arcaica (coll. IMAGO ANTIQUA).

La riproduzione perfetta di un manufatto ceramico, pertanto, richiederebbe il recupero delle stesse argille usate in passato per ogni specifica tipologia e fabbrica, oltre a una loro complessa depurazione con le stesse tecniche antiche: processo forse non impossibile, ma certamente assai costoso e poco giustificabile sul piano commerciale. Le argille moderne, d’altro canto, si mostrano in genere assai più raffinate rispetto alle controparti antiche, segnando già in questo dettaglio un elemento di discontinuità (vedi foto dei piedi a confronto).

In seconda battuta, la resa estetica degli smalti e delle vetrine moderne tende a discostarsi dai prototipi per una maggiore “pulizia” e perfezione dell’insieme, mentre quelli antichi manifestano spesso bollosità, cavillature e disomogenei addensamenti, con un aspetto decisamente più irregolare.

Piccolo boccale a guisa di panata, Orvieto o Viterbo, fine XV secolo (coll. privata).

Piccolo boccale a guisa di panata, Orvieto o Viterbo, fine XV secolo (coll. privata).

Piccolo boccale a guisa di panata, Orvieto o Viterbo, fine XV secolo (coll. privata).

Visione di dettaglio sulle imperfezioni superficiali.

In questo senso, anche le condizioni di cottura in fornaci più primitive rispetto ai forni elettrici contemporanei, con una imperfetta distribuzione termica e pezzi accatastati in ogni ordine (e con volumi produttivi ben distanti da quelli delle repliche moderne), contribuiva a questa resa meno impeccabile delle coperture; dettaglio anch’esso dirimente nella distinzione tra una replica ed un manufatto originale.

Dettaglio dello smalto di un boccale di Motelupo Fiorentino (Berti 1997, gruppo 10.1, 1430-60; coll. privata).

Dettaglio dello smalto di un boccale di Motelupo Fiorentino (Berti 1997, gruppo 10.1, 1430-60; coll. privata).

Dettaglio di ciotola dall'ospedale di S. Maria della Scala (1436), dove si evidenziano le cavillature dello smalto e le sue bollosità (coll. privata).

Dettaglio di ciotola dall’Ospedale di S. Maria della Scala (1436), dove si evidenziano le cavillature dello smalto e le sue bollosità (coll. privata).

Se questi fattori rappresentano un limite difficilmente sormontabile, sul piano delle forme e dei colori la mano degli artefici moderni può invece reggere il passo delle produzioni antiche ed è su di essi, a mio avviso, che il ricostruttore dovrebbe oggi concentrarsi.
La correttezza delle forme e delle cromie, infatti, può senz’altro bilanciare le mancanze e rendere il compromesso pienamente accettabile, anche nell’ottica di una didattica di tipo museale.

Boccale del tardo XV sec, famiglia gotico floreale, con ornato faentino “a penna di pavone”, conservato presso il Museo della Città di Rimini (Collezione Cucci); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Boccale del tardo XV sec, famiglia gotico floreale, con ornato faentino “a penna di pavone”, Museo della Città di Rimini (coll. Cucci); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).


Di seguito un video-intervento di approfondimento relativo alla maiolica italiana nel Quattrocento, tratto da un workshop organizzato da IMAGO ANTIQUA nel 2016:


Bibliografia:

– BERTI F. 1997, Storia della ceramica di Montelupo: uomini e fornaci in un centro di produzione dal XIV al XVIII secolo, vol. I, Montelupo Fiorentino.

– GARDELLI G. 1984, 5 secoli di maiolica a Rimini. Dal ‘200 al ‘600, Ferrara.

– LUSUARDI SIENA S. 1994, Ad mensam. Manufatti d’uso da contesti archeologici fra tarda antichità e medioevo, Udine.

– SCONCI M. S. 2011 (a cura di), Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto: Ceramiche, Prato.

Vi proponiamo di seguito la scheda di un manufatto di qualità museale, appena ultimato, che sarà principalmente impiegato durante i nostri mercati didattico-dimostrativi “itineranti” e nella bottega stanziale del merciaio che gestiamo presso il borgo medievale di Zuccarello, in provincia di Savona (CLICCA QUI per ulteriori informazioni).

Misure
50 (L) x 23,5 (P) x 17,5 (H) cm

Materiale di fondazione
Legno di noce di lunga stagionatura, reperito dallo smantellamento di un vecchio mobile di fine 1800/inizi 1900.

Ferramenta
Le bandellature e gli angolari in ferro battuto, disposti lungo i quattro lati e sul coperchio, trovano corrispondenza in due esemplari italiani di metà XV sec: i motivi a giglio sono direttamente tratti da una cassetta di area settentrionale, esposta presso le “Civiche Raccolte d’Arte Applicata” del Museo Sforzesco di Milano, mentre le maniglie richiamano lo scrigno recante gli stemmi Bentivoglio-Sforza, di manifattura bolognese, conservato al Museo Civico Medievale di Bologna (inv. 1983).

Serratura
Si tratta della replica di un originale bresciano del pieno XV sec, facente parte della collezione privata di Valentino Mazzoni, mastro serraturiere di Finale Emilia.

Battente
Abbiamo optato per foggia asimmetrica e terminale a ricciolo perchè piuttosto frequenti in cofanetti centro-europei del Quattrocento: a titolo non esaustivo, si possono citare due manufatti presso il Germanisches Nationalmuseum di Norimberga (inv. HG292, HG300) ed uno presso il Museo Bagatti Valsecchi di Milano (inv. 596).

Chiave
Ricostruzione di un originale di bottega veneta di fine XV-inizi XVI secolo, con tipico piccagnolo circolare e impugnatura rotonda “a rosone”, esposto al Museo “Luigi Bailo” di Treviso (inv. F1192).

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Ringraziamenti
Il merito del lavoro va sicuramente all’abilissimo artigiano CLAUDIO CIOLI di Rimini (per contatti: cli.cld@libero.it), che ha saputo assecondare ogni indicazione con estrema precisione.
Ci sentiamo debitori anche verso l’amico Valentino Mazzoni, mastro serraturiere di Finale Emilia, per le preziose informazioni e gli scatti forniti relativamente a serrature e chiavi della propria collezione.
Non possiamo tralasciare, infine, la curatrice dello Sforzesco, Dott.ssa Valentina Ricetti, per la gentile concessione delle immagini del pezzo di studio citato per la ferramenta, appositamente realizzati su nostra richiesta.


Articolo di ANDREA CARLONI (2019)


BREVI CENNI STORICI

Segue un estratto, con omissis, dalla recensione di C. TRIPODI al testo di V. ILARDI, Renaissance vision from spectacles to telescopes, Philadelphia, American Philosophical Society, 2007 [rif. Archivio Storico Italiano, Vol. 166, No. 2 (616) (aprile-giugno 2008), Leo S. Olschki, pp. 341-344]

«Noti in Toscana dal principio del secolo XIV grazie ai sermoni di fra’ Giordano che affermava di averli visti personalmente in uso a Pisa alla fine del ‘200, i preziosi cerchietti di vetro, capaci di prolungare la vista umana oltre il limite consentito dall’età biologica, si diffusero a Firenze e altrove in virtù dell’abilità manuale di frate Alessandro della Spina, confratello del primo. Nati come evoluzione della lente di ingrandimento, presenti nelle fonti veneziane come dischi di vetro e solo in quelle fiorentine con il nome di occhiali che li avrebbe caratterizzati per tutto il tempo a venire, furono oggetto di esportazione già dal 1321. I fabbricanti di occhiali, non costituiti in arte, si appoggiavano fin dal principio a quella dei cristallieri e spesso venivano associati agli orafi e ai lavoranti di pietre preziose: gli occhialai, artigiani raffinati, ben si assimilavano agli artefici di manufatti di lusso. Grazie alle ceneri alcaline di Siria ed Egitto essi accostarono la trasparenza del vetro chiaro alla purezza del più pregiato cristallo e implementarono la produzione di lenti da vista (…)
Al di là dell’invenzione, quella che oggi appare certa è la leadership di Firenze nella produzione e diffusione del prezioso accessorio, e se ai domenicani spettò il primato nella loro fabbricazione, diffusione e perfino nelle raffigurazioni pittoriche, i francescani non furono da meno dedicandosi tanto alle teorie ottiche quanto alle rappresentazioni artistiche (…)

Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, pare che i costi degli occhiali fossero piuttosto contenuti – fatta eccezione per quei casi in cui le lenti erano di cristallo e le montature di materiale pregiato. Gli occhiali trovarono un vasto impiego presso ecclesiastici, notai, artigiani di fino (è il caso delle suore agostiniane di Santa Maria del Fiore presso Firenze che ricamavano e lavoravano ai ferri), mentre rimase modesta la loro diffusione dietro prescrizione medica. I medici preferivano ancora affidarsi ai tradizionali rimedi naturali e guardavano con sospetto questi ausili meccanici, come dimostra l’assenza di riferimenti agli occhiali nei due trattati oftalmologici più diffusi nel basso Medioevo (…)
Fuori dall’Italia gli occhiali si diffusero presso uomini di Chiesa, mercanti, artigiani probabilmente adusi a frequenti viaggi e spostamenti. I ritrovamenti archeologici più antichi sono di area tedesco-baltica e risalgono al principio del XIV secolo.
Niente di particolarmente diverso da quanto accadde in Italia dove lo sviluppo autentico dell’optometria si ebbe solo dalla metà del XV secolo in avanti. Dopo il 1450 apparvero le prime lenti concave pensate per la correzione della miopia (ndr, fino a non molti anni fa era credenza abbastanza diffusa che le lenti fossero unicamente convesse e destinate ai presbiti; si vedano i documenti al termine dell’articolo). Ne fanno testo Niccolò Cusano con un’impronta metafisico-teologica ma anche, in maniera più terrena, il duca di Milano Francesco Sforza. E fu proprio la corte del Duca a rappresentare un ampio mercato di consumi dove gli occhiali fiorentini figuravano come status symbol (…) Materiali adatti alla struttura delle montature erano il legno come il metallo, l’osso, il corno, l’avorio come la pelle, tagliati, modellati e lavorati in base alla loro specifica natura e all’adattabilità ad inserirvi lenti concave o convesse a seconda del difetto da correggere».


UN SORPRENDENTE (QUANTO UNICO) REPERTO ITALIANO DEL ‘400

In uno scavo del 1982 è emerso a Firenze un paio di occhiali databili al XV secolo, con ponticelli curvi, privi di lenti e articolati tramite un rivetto, in condizioni generali quasi perfette. Si tratta, allo stato, dell’unico esemplare italiano di pince nez di epoca medievale finora noto.

La montatura si trovava a 8,3 mt di profondità, all’interno di un pozzo situato in Via dei Castellani, sul retro di Palazzo Vecchio. Nelle analisi provvisorie effettuate sul posto, si indicò come corno il materiale di fondazione, sebbene le fessure e le sporgenze presenti, espedienti comuni per sigillare gli oculari con del filo, al fine di trattenere le lenti in sede, suggeriscano che possa trattarsi di osso (e con meno probabilità avorio), vista l’ampia incidenza di tale materiale organico nei reperti rinvenuti in loco. Misure: lunghezza tot. 68 mm, diametro oculari 33 mm

Tratto dal testo di V. ILARDI, Renaissance vision..., 2007, p. 309

Tratto da V. ILARDI, Renaissance vision..., 2007, p. 309


PRINCIPALI REPERTI ARCHEOLOGICI ESTERI DEL XIV-XV SEC.

Il maggior numero di originali riferibili al Quattrocento pare provenire da località dei Paesi Bassi: tra i più noti quelli emersi a Vlissingen (1425-1450 c.), Harleem (1350-1575 c.), Bergen Op Zoom (1380-1425 c.), Middelburg e Windesheim/Zwolle (tardo XV sec.).

Pince nez 1380-1425 c., prov. Bergen Op Zoom, Olanda

Pince nez 1380-1425 c., prov. Bergen Op Zoom, Olanda (fonte: www.antiquespectacles.com)

Anche dagli scavi di Raversijde (Ostend) in Belgio è emerso, nel 1992, un frammento di montatura ossea datato al XV secolo.

La Germania vanterebbe, secondo alcuni, i più antichi esemplari di pince nez, rinvenuti nel 1953 sotto gli stalli trecenteschi del coro dell’Abbazia di Wienhausen (Bassa Sassonia): uno di essi, in legno di bosso, è della tipologia “a rivetto” e ancora provvisto di lenti. Nei pressi di un monastero agostiniano a Friburgo sono emersi altri occhiali presumibilmente databili al XIV secolo, con ponticelli ricurvi ma privi di lenti.

Pince nez, XIV sec., prov. Abbazia di Wienhausen (Bassa Sassonia)

Pince nez XIV sec., prov. Abbazia di Wienhausen, Germania (fonte: www.antiquespectacles.com)

Il pince nez più antico della Polonia è conservato nel Museo di Archeologia e Storia di Elbląg: si tratta di un occhiale databile entro la prima metà del XV secolo, ritrovato in un appezzamento di terreno oggi ubicato in Garbary Street, un tempo pertinente ad un’area residenziale di ricchi mercanti. La montatura è in corno, con ponticello fisso (quindi senza oculari articolati) ed ancora provvista di particolarissime lenti in vetro verde scuro: quest’ultimo dettaglio farebbe ritenere che la funzione fosse quella di proteggere dai raggi solari e non quella di offrire supporto alla lettura.

Pince nez 1400-1450c., prov. Elbląg, Polonia

Pince nez 1400-1450c., prov. Elbląg, Polonia (fonte: www.strefahistorii.pl)

In Inghilterra sono oltremodo famosi gli occhiali londinesi in osso degli scavi di Trig Lane, Blackfriars (1430-1440 c.), lunghi 65 mm, con oculari di circa 30 mm e sui quali è possibile reperire diverse informazioni in rete; sempre dalla capitale anglosassone sono emersi altri frammenti di montatura a Swan Stairs.

Pince nez 1430-1440 c., Trig Lane (Londra), UK (fonte: www.collections.museumoflondon.org.uk)

Pince nez 1430-1440 c., Trig Lane, Londra (fonte: www.collections.museumoflondon.org.uk)


CONFRONTI ICONOGRAFICI

Quanto all’iconografia, considerato che la rete offre un ampio ventaglio di opportunità, preferiamo non dilungarci troppo nella relazione, invitando il lettore a condurre direttamente una ricerca diretta (suggeriamo i termini “pince nez”, “occhiali medievali” e “medieval spectacles”).
Tanto per iniziare, ecco una piccola rassegna Pinterest: CLICCA QUI


APPENDICE DOCUMENTARIA – MISSIVE SFORZESCHE

Lettera datata – Milano, 13 giugno 1466

Galeazzo Maria Sforza al suo ambasciatore Nicodemo Tranchedini da Pontremoli.

Archivio di Stato Milano (AsMi), Registri delle Missive, Reg. 77, fol. 89v, rotolo 501

Nicodemo de Pontremulo

‘Perche haveressemo caro havere li ochiali, li quali te mandiamo notati in la lista qui inclusa, volemo che havuta questa debii vedere de recattarli che siano in perfectione per le etate como dice dicta lista; et mandarneli facendoli mettere in qualche scatola ben asettati et separati l’una sorte da l’altra cum li scripti attacati, in modo che quando li habiamo sapiamo discernere l’una sorte da l’altra; avisandone de quello costarano perche te faremo provisione al pagamcnto. Mediolani XIII iunii 1466.

Io[hannes Simonetta]
Para XV de ochiali de anni 30, 35, 40, 45, 50 [55 sbarrato], fini.
Item, para XV de ochiali de anni 40, 45, 50, 55, 60, 65, 70.
Item, para X de ochiali di zovene de meza vista.
Item, para X de longa de zovene.

Questa lettera rappresenta la prima e chiara dimostrazione del fatto che almeno dal 1466 i fabbricanti di occhiali e i loro clienti avevano piena contezza del principio per cui l’acutezza visiva è tendenzialmente destinata a calare dall’età di 30 anni in avanti; l’uso di espressioni relative ad una vista da mezza e lunga distanza, inoltre, è indice di una certa consapevolezza della progressività degli stadi miopici.

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Lettera datata – Milano, 21 Ottobre 1462

Galeazzo Maria Sforza al suo ambasciatore Nicodemo Tranchedini da Pontremoli.

Bibliotheque Nationale de France, Parigi, Fonds Italien, Cod. 1595, fol. 291, rotolo 1762

Perche sonno molti che ne domandano delli ochiali che se fanno li ad Fiorenza, attento che la fama e che se fanno in piu perfectione che in veruno altro loco de Italia, volemo te te [sic] commettiamo che ne deby mandare tre docene de dicti ochiali, acconzati in schatole che non se possano rumpere; zoe una docena de quelli sonno apti et convenienti ad la vista longa, zoe da zovene; et un’altra che siano convenienti ad la vista curta, zoe de vechy; et la terza da vista comune. Li quali te aviso non volemo per nostra uso, perche per la grazia de Dio nuy non ne havemo bisogno, ma li volemo per compiacerne ad questo et quello che ne li domandano. Mandandoli per le poste de nostri cavallari, li quali drizaray in mano de Zohanne Symonetta, nostra secretario, et avisandone de quello costarano perche te manderemo li denari. Datum Mediolani XXI October 1462. Iofhannes] Petrus. Io[hannes] Simonetta.

In questa missiva, che pur precede l’altra temporalmente, emerge l’ordine impartito dal Duca di Milano di procurare tre dozzine di paia di occhiali, provenienti dalla città di Firenze e differenziate in base alla carenza di visus da correggere, variabile con l’età. Tale circostanza consente di dimostrare che già nei primi anni ’60 del secolo XV sono attestate lenti concave da miope e che Firenze era senza dubbio reputata leader nella produzione di occhiali di alto livello qualitativo.


I “PINCE NEZ” RICOSTRUITI DA IMAGO ANTIQUA

Gli occhiali medievali che comunemente si possono acquistare presso i rivenditori sono perlopiù riproduzioni, talvolta non del tutto accurate, dell’esemplare emerso a Trig Lane (Londra).
Mossi dall’intento di realizzare una replica ex novo e ben documentabile per l’area centro-italiana della seconda metà del 1400, ci siamo rivolti ad Ezio Zanini – ViduQuestla, nostro artigiano di fiducia, al quale abbiamo affidato in passato, con piena soddisfazione, diversi altri progetti ricostruttivi (di recente, una clepsamia: CLICCA QUI)

Mantenendoci fedeli all’impostazione di interpolare le fonti pervenute, ci siamo subito addentrati nella scrematura dell’iconografia a nostra disposizione, rintracciando come possibile modello di riferimento un dettaglio visibile nell’opera di Piero di Cosimo intitolata Visitazione con S. Nicola e S. Antonio Abate (1489-1490, National Gallery of Art, Washington).

Iconografia  di riferimento

Iconografia di riferimento

La tipologia a ponticelli imperniati e ricurvi trova riscontro diretto nell’originale fiorentino di Via Castellani (vedi sopra), per quanto il materiale appaia differente: visto il particolare tratto scuro con il quale l’artista ha delineato il pince nez indosso a S. Antonio, che non presenta variazioni di colore né screziature, si è deciso di confezionare la nostra ricostruzione in corno di bufalo, materiale che presenta le stesse caratteristiche cromatiche rese nel dipinto.

Il corno è stato quindi segato a mano per realizzare le “piastrine” piatte della montatura, con le misure a noi utili.

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Una volta tracciata la forma di ogni singolo oculare, si è proceduto a segarne i contorni ed ad eseguire il foro che permette di articolare tra loro i due archetti.

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Il tutto è stato successivamente lisciato e rifinito con l’ausilio di lime e carte abrasive, grazie alle quali, con passaggi di grana sempre maggiore, si è giunti a lucidare in maniera uniforme la superficie nera del corno.

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Una volta ottenuta una montatura leggera e sottile, con proporzioni e forma comparabili a quelle del dipinto, si è proceduto alla realizzazione del rivetto centrale e delle rondelle che consentono l’unione ed articolazione delle due parti, realizzate con processi in tutto manuali a partire rispettivamente da una barretta e da fogli di ottone.

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L’aggiunta di lenti correttive +1,25 è stata effettuata ricorrendo ad un ottico professionista, conferendo reale funzionalità alla replica.

Ringraziamo sentitamente l’amico Ezio Zanini (www.viduquestla.it) per il supporto offerto nella realizzazione della replica in oggetto e per gli scatti del work-in-progress.

Articolo di ANDREA CARLONI (2019)

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In data 30 marzo 2019 abbiamo realizzato, con grande soddisfazione generale, il progetto di varcare in abiti del Quattrocento le soglie quasi sacrali di un vero e proprio tesoro internazionale dell’architettura e della cultura umanistica, muovendoci al suo interno alla stessa maniera dei suoi originari avventori. Stiamo parlando dell’AULA NUTI presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena, patrimonio UNESCO dal 2005.

Oggi sappiamo per certo che, già in antico, essa fu frequentata anche da diverse donne, stando ai numerosi graffiti presenti su intonaco e banchi, recentemente oggetto di studi settoriali : tra i tanti, compaiono i nomi Zoanna, accompagnato dalla data 1478, e per ben 14 volte quello di Lucretia, con ogni probabilità identificabile in Lucrezia Borgia, che fonti consolidate riferiscono in transito a Cesena, assieme ad un folto seguito, il giorno 24 gennaio 1502. 

Grazie alla squisita cortesia della Dott.ssa Paola Errani, Responsabile Biblioteca Antica e Fondi Storici, che ci ha consentito di prelevare e visionare dal vivo, direttamente sui plutei lignei, una selezione di preziosi manoscritti e codici miniati, abbiamo assaporato momenti di integrale abbandono nell’atmosfera del tardo XV secolo.

Era la prima volta che una simile opportunità veniva concessa ai praticanti della Ricostruzione Storica. Poichè sarebbe stato limitativo viverla in pochi, abbiamo deciso di condividerla con altri reenactors di lunga data, che hanno collaborato al nostro fianco con encomiabile disponibilità e dedizione.
A ciascuno di loro va il tributo di riconoscenza di tutta IMAGO ANTIQUA!

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Organizzazione evento: Ass. Cult. IMAGO ANTIQUA


PARTECIPANTI

Imago Antiqua
Silvia Ballabio
Andrea Carloni
Marco Vignola

I Fanciulli e la Corte di Olnano
e Compagnia dell’Istrice

Alberto Antonelli
Daniele Fabbri
Ettore Pazzini

Singoli re-enactors
Ylenia Borgonovo
Alessio Orlandi
Renzo Semprini

Ringraziamo sentitamente anche la Compagnia di San Martino, nelle persone di Filippo Vannini ed Erika Tamburini, per il prestito di alcuni capi d’abbigliamento utilizzati per l’occasione.

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Per vedere l’intera gallery fotografica
CLICCA QUI

Uno slideshow dedicato all’evento da noi organizzato è stato inserito nella “Storia per immagini” realizzata nel maggio 2020 dalla Dott.ssa Carla Rosetti, contributo che intende ripercorrere tappe e personaggi salienti legati alla Biblioteca Malatestiana:

Per vedere un breve slideshow
CLICCA QUI

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La Biblioteca di Malatesta Novello, Signore di Cesena

di Paola Errani
Responsabile Biblioteca Antica e Fondi Storici

Articolo specificamente realizzato per IMAGO ANTIQUA

Alla metà del Quattrocento, sotto la signoria di Malatesta Novello, Cesena conosce un momento di straordinario splendore artistico e culturale, che culmina nel grande cantiere della Biblioteca.

La sua fondazione si deve alla volontà congiunta di Malatesta Novello, signore di Cesena dal 1433 al 1465, e dei frati francescani, che avevano in animo di costruire una biblioteca ad uso del loro Studium, attivo già da decenni, e che per questo scopo avevano ottenuto dal papa Eugenio IV il permesso di utilizzare un lascito testamentario. Dal 1450 è documentato l’intervento di Malatesta, che fa erigere una splendida sala all’interno del convento in cui alloggiare la biblioteca, monumento perenne per sé, la sua famiglia ma anche per la città.

L’edificio è opera del fanese Matteo Nuti, Dedalus alter, come si legge nell’epigrafe posta a lato della porta d’ingresso, ma una suggestiva ipotesi attribuisce il progetto architettonico a Leon Battista Alberti, che negli stessi anni in cui viene eretta la Malatestiana si trova a Rimini, alla corte di Sigismondo Malatesta, fratello di Malatesta Novello, per il quale edifica il Tempio malatestiano.

Terminati i lavori nel 1452, la biblioteca viene “inaugurata” ufficialmente “a dì 15 d’agosto 1454”, data che si legge incisa sulla splendida porta lignea d’ingresso, che reca gli stemmi malatestiani e il nome dell’intagliatore, Cristoforo di San Giovanni in Persiceto.

Al di sopra della porta, inserito nel timpano, campeggia il bassorilievo dell’elefante, emblema dei Malatesti, con il motto Elephas Indus culices non timet (L’elefante indiano non teme le zanzare).

Dal punto di vista architettonico la Malatestiana si ispira al modello realizzato da Michelozzo a Firenze nella biblioteca di San Marco voluta da Cosimo de’ Medici: la sala presenta una pianta basilicale, suddivisa in tre navate da due file di dieci colonne ciascuna, ed è illuminata da ventidue finestrine su ogni lato e da un rosone sulla parete di fondo, che distribuiscono uniformemente la luce.

Stemmi malatestiani sono presenti nel plutei e sui capitelli, e il nome di Malatesta Novello ritorna nell’iscrizione inserita nel pavimento in ogni campata, accompagnato da quel dedit (diede), che rinnova la memoria del donatore.

Nelle navate laterali due file di 29 plutei ciascuna, contengono i libri, che sono il fondamento della Biblioteca.

Malatesta Novello integra il preesistente fondo conventuale, costituito nel suo complesso già nel Trecento e comprendente le Sacre Scritture, testi di teologia e di filosofia, raccolte enciclopediche, con i manoscritti prodotti nello scriptorium da lui fondato. Scriptorium che nell’arco di vent’anni circa (dal 1446 al 1465) produce 126 codici con le opere dei classici greci e latini e dei Padri della Chiesa. La biblioteca viene completata dalla raccolta di 119 codici donata dal medico del Novello, Giovanni di Marco da Rimini, comprendente testi di medicina, astronomia, scienze naturali, ed è arricchita dagli acquisti fatti dal Novello di codici greci ed ebraici.

Già la scelta linguistica qualifica l’idea di biblioteca che Malatesta Novello voleva realizzare: nella raccolta entrarono solo volumi in latino, greco, ebraico, la cui presenza dà espressione concreta a quel concetto delle tre lingue che è motivo essenziale della cultura del Rinascimento. La raccolta quindi realizza compiutamente la cultura, i gusti, le passioni di questo principe del Quattrocento, che si ispira ai canoni della civiltà umanistica.

L’interesse universale della Malatestiana è ribadito dalla scelta di destinare la raccolta ad uso pubblico sotto il controllo delle autorità cittadine. E quindi la Malatestiana pur essendo nata come “libraria Domini”, biblioteca signorile, per essere stata affidata dallo stesso Malatesta Novello al Comune e destinata ad uso pubblico, diventa una delle più antiche biblioteche pubbliche d’Europa. Alla municipalità sono affidate dal principe la cura e la tutela della biblioteca, anche se il custode bibliotecario è scelto tra i frati del convento: di questa doppia custodia sono simbolo le due chiavi con cui si apre la porta, e che furono conservate sino alla fine del Settecento ciascuna presso le due istituzioni. Ora le chiavi sono entrambe custodite presso la Biblioteca.

Il vigile controllo esercitato dal Comune nei secoli è uno dei principali fattori che hanno determinato la straordinaria conservazione della biblioteca in tutti i suoi elementi, permettendole di superare indenne la fine della dominazione dei Malatesti, la soppressione in età napoleonica del convento francescano che la ospitava, e tanti altri momenti difficili della sua storia.

Mentre collezioni anche più importanti sono andate disperse nel corso del tempo, ancora oggi i 340 codici sono al loro posto come cinque secoli fa, legati ai banchi dalle loro catenelle quattrocentesche, né è mutata la loro disposizione.

Oggi l’antica ‘libraria’ è inglobata nella biblioteca moderna, di cui costituisce la radice e l’anima, espressione perenne della volontà di Malatesta Novello di dare alla sua città una biblioteca pubblica. La Malatestiana è il maggior motivo d’orgoglio per Cesena ed è un simbolo amato con eccezionale fedeltà dai cesenati: l’iscrizione della Biblioteca nel Registro della Memoria del Mondo, avvenuta nel 2005, rafforza in particolare il senso di responsabilità della città nei confronti di questo patrimonio, e l’impegno nel conservarlo e valorizzarlo, e a renderlo sempre più accessibile e fruibile alla collettività.

Lenzburg_01Tra il 27 e il 30 luglio 2017, presso il castello-museo di Lenzburg, in Aargau (Svizzera), si è svolto un evento della Company of St. George che ha richiamato oltre 80 reenactors da tutta Europa, per offrire ai visitatori uno spaccato di vita tardo medievale in un contesto storicamente credibile.

Il castello stesso, monumento tra i più importanti nel suo genere in suolo elvetico, mostra oggi più fasi edilizie collocabili tra XI e XVII secolo, ma così bene armonizzate da non “disturbare” l’occhio del pubblico, pur nella loro diacronicità.
In questo scenario quasi privo di compromessi si sono dunque dipanate le consuete attività militari di guarnigione e un “mercato didattico”, dove abili artigiani e mercanti hanno interagito al massimo con la platea dei visitatori del castello, per rendere veramente immersiva l’esperienza del passato.

Negli scatti a seguire saranno presentati alcuni dei momenti ricostruttivi vissuti dai soci di IMAGO ANTIQUA che con la Company of St. George collaborano ormai da anni, in piena sintonia d’intenti.
Marco Vignola, infatti, ne fa parte dal 1999, mentre Andrea Carloni ed Enrico Lazzari, in qualità di “reclute”, sono membri di diritto dell’associazione ed hanno a loro attivo numerose partecipazioni agli eventi della Compagnia; Silvia Ballabio, dal canto suo, ha invece offerto il suo contributo come ospite tanto in abito medievale, quanto nei panni di fotografa accreditata.

Immagini di Andreas Petitjean e Silvia Ballabio

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Silvia&Andrea

 

CLESSIDRE E CLEPSAMIE… FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA!
Le origini dei dispositivi portatili di misurazione del tempo tramite liquidi (clessidre) e polveri (clepsamie) non sono del tutto chiare.
Mentre la clepsydra – dal greco κλεψύδρα, comp. di κλέπτω «rubare» e ὕδωρ «acqua» – pare essere di origine egizia, le prime attestazioni iconografiche della clepsamia – neologismo – sono attribuite all’Italia del XIV secolo: Ambrogio Lorenzetti, nella fattispecie, l’ha ritratta in mano alla Temperanza, una delle sei figure allegoriche delle Virtù del Buon Governo che compaiono nel celebre ciclo di affreschi del Palazzo Pubblico di Siena, risalente al 1338-1339 [cfr. R. T. BALMER, The Operation of Sand Clocks and Their Medieval Development, Technology and Culture, Vol. 19, No. 4 (Oct., 1978), The Johns Hopkins University Press and the Society for the History of Technology, p. 616].

Numerosi e largamente indagati dalla critica sono i significati reconditi e le implicazioni filosofico-religiose richiamate dalle clepsamie, connesse alla condizione effimera e mutevole della vita umana (ad esempio, il tema ricorrente del memento mori), ma non è questa la sede opportuna per approfondire tali aspetti.

Sul piano della cultura materiale, che maggiormente interessa ai nostri fini, di certo gli orologi a polvere rappresentavano uno strumento di gran lunga più economico e semplice da realizzare, e quindi più diffuso nelle dimore dell’epoca medievale e rinascimentale, rispetto agli orologi meccanici, peraltro già documentati in Italia almeno dalla fine del XIV secolo; a questo ultimo proposito, si tenga conto che il sopravvissuto meccanismo della Torre campanaria di Sant’Andrea a Chioggia venne saldato nel 1386 [cfr. E. CAMPOREALE, Sugli orologi pubblici in Italia: presenze e rappresentazioni, in Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria, Volume LXXV, Nuova serie – LXI, Anno 2010, pp. 217-218].

Possediamo, altresì, testimonianze sufficienti ad affermare con sicurezza che nella vita quotidiana le clepsamie fossero comunemente impiegate per scandire intervalli temporali ridotti ma ricorrenti, come la lunghezza delle omelie, dei tempi di cottura, dei turni di lavoro (es. nelle botteghe artigiane), delle lezioni universitarie, delle orazioni nelle corti di giustizia [cfr. S. GUYE & H. MICHEL, Time & Space: Measuring Instruments from the 15th to the 19th Century, Praeger Publishers: New York; Washington; London (1971), p. 262-266]; in campo medico, invece, è plausibile che fossero di ausilio nella misurazione del battito cardiaco, sulla scorta di quanto già sperimentato da Erofilo di Calcedonia, anatomista della Scuola d’Alessandria, vissuto a cavallo tra III e IV sec. a.C. [L. R. ANGELETTI e V. GAZZANIGA, Storia, filosofia ed etica generale della medicina, Elsevier Masson, Milano (2008), p. 25]
Non si può ovviamente omettere di citarne l’utilizzo a bordo delle imbarcazioni, per la misurazione dei tempi di navigazione, laddove le clessidre non potevano funzionare a dovere, a causa dell’azione disturbante del moto ondoso sui fluidi contenuti al loro interno.


RICOSTRUZIONE DI UNA CLEPSAMIA DEL XV SEC.

Quella che segue è una relazione sul processo di manifattura di una clepsamia del tardo Quattrocento che abbiamo inteso percorrere, passo dopo passo, con l’impiego di materie prime e processi artigianali realmente pertinenti al periodo.
Dopo aver passato in rassegna le fonti dirette e indirette a disposizione, si è optato per la riproduzione della tipologia ritratta nel San Girolamo di Van Eyck (1435 c., Detroit Institute of Arts), opera che già avevamo considerato per la riproduzione del leggio (CLICCA QUI) e di altri accessori legati all’esercizio della scrittura che verranno analizzati in futuri approfondimenti tematici.

VAN EYCK, "San Girolamo nel suo studio", 1435c (Detroit Institute)

VAN EYCK , “San Girolamo nel suo studio”, dettaglio;        1435 circa, Detroit Institute

La prima necessità è stata quella di realizzare in modo consono i recipienti vitrei. Il Balmer riferisce che fino alla metà del XVIII sec., le clessidre venivano realizzate soffiando in matrice due distinti recipienti che venivano uniti per il collo tramite un sottile diaframma, piatto e dotato di un piccolo foro al centro (orifizio); essi erano quindi uniti insieme con spago e il punto di giunzione era sigillato con stucco oppure cera, nel tentativo di tenere a bada l’umidità [cfr. R. T. BALMER, op. cit., pp. 625-626].

Passando alla fase operativa, abbiamo subito dovuto fare i conti con un dato di fatto: la maggioranza dei mastri vetrai odierni utilizza panetti di silice raffinata industrialmente, del tutto inadatta ad ottenere valve che mostrino in trasparenza le imprescindibili caratteristiche di bollosità e impurità tipiche del vetro antico. Il primo ostacolo presentatosi si è quindi rivelato anche il più ostico da superare… Non trovando nessuno disponibile a ovviare a questo problema e non volendo d’altra parte ripiegare su prodotti finiti di ampia reperibilità ma provvisti di vetro e polveri inadatti, ci siamo rivolti ad antiquari e collezionisti di anticaglie, individuando, dopo mesi di ricerche, una serie di ampolline singole di incredibile qualità, in quanto soffiate a canna in matrice da una bottega fiorentina di fine ‘800-inizi ‘900, adottando processi e materiali analoghi a quelli del pieno Medioevo. Tra esse sono stati selezionatei i due migliori esemplari per regolarità, colore e trasparenza.

Ampolline soffiate a mano

Ampolline soffiate

Ignorando cosa venisse precisamente impiegato al tempo come dispositivo di filtraggio della polvere (diaframma) – non sono state individuate fonti su questo dettaglio – abbiamo creato un tondello di pergamena caprina, conciata e trattata con sostanze naturali, largo circa 20 mm e spesso circa 1,5 mm, previamente forato nel centro con una lesina da calzolaio.

Foratura del diaframma in pergamena

Foratura del diaframma in pergamena

La qualità della polvere condiziona il buon funzionamento futuro dello strumento, pertanto occorre sceglierla con estrema oculatezza e testarla preventivamente all’unione definitiva delle due ampolline, in modo da non mandare a monte ore di lavoro!
La documentazione raccolta riporta l’uso di una grande varietà di sostanze differenti, alcune semplici e direttamente reperibili in natura, altre originate dalla mescolanza di più elementi: polvere di marmo, polvere d’argento, polvere di stagno, limatura di ferro, limatura di rame, piombo carbonizzato, sabbia veneziana (misto di stagno e piombo carbonizzati), cannella macinata, gusci d’uovo polverizzati, smeriglio fine, sabbia di fiume [cfr. R. T. BALMER, op. cit., p. 623].
Istruzioni tecniche per la realizzazione di una polvere per clessidra sono contenute nel Ms. Fr. 640 presso la Bibliothèque Nationale de France (titolo: Recueil de recettes et secrets concernant l’art du mouleur, de l’artificier et du peintreper), per quanto tale manoscritto in lingua francese, databile al XVI sec., rappresenti una fonte piuttosto tarda rispetto al nostro periodo di riferimento.
Al folio 10r si legge quanto segue: «Deve essere confezionata molto fine e non soggetta alla ruggine e con peso sufficiente per scorrere. Prendi 1 lb. [217] di piombo, fondilo, scremalo e purificalo dalla sporcizia, quindi versavi dentro quattro ℥ [ndr, once] di sale comune finemente macinato, prestando attenzione che non vi siano pietre o terra. Ed immediatamente dopo averlo versato, mescolalo di continuo e molto bene con un ferro [attrezzo] finchè il piombo e il sale siano completamente incorporati e toglilo immediatamente dal fuoco, mescoldando di continuo. E se ti pare troppo grezzo, frantumalo su una lastra di marmo e passalo ad un setaccio fine, poi lavalo tante volte quanto è necessario affinchè l’acqua diventi limpida, gettando via la polvere sottile che vi galleggerà in superficie, rinnovando l’acqua tante volte quanto necessario, finchè sarà completamente chiarificata».
E’ abbastanza evidente che, mentre la scelta del tipo di sostanza non risponde a regole ferree, il requisito fondamentale è che i granelli siano perfettamente regolari, senza dunque presentare angoli, in modo da assicurare uno scorrimento ottimale ed evitare di intasare il foro della membrana posta a separazione delle due ampolle.
Alla luce del materiale analizzato, per la nostra replica di clepsamia abbiamo optato per semplice sabbia tratta dal litorale riminese, considerata l’insolita regolarità e finezza della stessa.

Valve, diaframma, polvere: tutti gli elementi di base sono presenti. A questo stadio si procede con la simulazione del funzionamento, senza applicare collanti, tenendo insieme il tutto con il solo ausilio delle mani: si versa la quantità di polvere desiderata in una delle due valve e ponendo l’altra “testa contro testa”, con in mezzo il diaframma, si fanno combaciare perfettamente i tre fori. Rovesciando le valve, con la dovuta attenzione ovviamente, si misura il tempo totale di discesa della polvere, direttamente influenzato dalla grandezza dei grani e dalla dimensione delle ampolle. Agendo in questa maniera, compiuti i necessari adattamenti, nel nostro caso abbiamo ottenuto una durata totale di circa 20 minuti, la quale risulta in linea con quanto registrato per un originale al London Science Museum [cfr. R. T. BALMER, op. cit., p. 631].

Simulazione giunzione delle ampolline

Test di giunzione delle ampolline

Per la giunzione definitiva delle ampolline si è utilizzata della colla animale, avendo cura di consolidare il tutto con spago in canapa molto fine, anch’esso ben imbevuto nel collante e più volte ravvolto, a stretti giri, attorno alle imboccature.
Lasciato asciugare, si è passati a comporre una miscela di gesso marcio e colla animale nella proporzione di 3:1, poi applicata intorno allo spazio presente tra il restringimento delle valve e il diaframma: coperto interamente il viluppo di canapa su entrambi i lati, si procede in più mani, facendo rasciugare più volte il composto, fino a modellare il caratteristico “ringrosso” vagamente ovoide visibile negli originali e nelle iconografie, necessario per sigillare completamente gli interstizi e tenere quanto più possibile indenne da umidità la polvere posta all’interno.

Ampolline giunte con gesso marcio e colla animale

Giunzione definitiva con l’ausilio di gesso marcio e colla animale

Al termine, abbiamo fatto riposare il tutto per una notte. L’indomani, avendo notato la formazione di piccole fenditure nel ringrosso di gesso, abbiamo effettuato piccoli ritocchi, quindi lo abbiamo dipinto con tempera all’uovo di colore giallo ocra; una volta lasciato rasciugare, il lavoro è stato ultimato verniciando la superficie con albume misto ad olio di lino, alla maniera illustrata da Cennino Cennini nel CAP. CLVI de Il Libro dell’Arte [cfr.F. FREZZATO (a cura di), Cennino Cennini. Il libro dell’arte, Neri Pozza Editore, Vicenza (2009), p. 178]


La struttura esterna, fungente sia da sostegno che da protezione antiurto della parte vitrea, è stata commissionata ad uno dei più abili artigiani del legno presenti sulla piazza italiana, Ezio Zanini, già nostro fornitore di fiducia, il quale ha personalmente curato tutte le fasi di lavorazione di seguito riportate.

Analisi iconografica

Analisi iconografica

Particolare attenzione è stata riservata alla lettura dell’immagine di riferimento, per valutare le proporzioni e dimensioni del manufatto:

  • si è notato un errore di prospettiva che porta ad un disallineamento tra la visione dell’asta posteriore sinistra e il suo riferimento visibile di piatto sulla superficie superiore della clessidra;
  • abbiamo preferito immaginare, quindi, erroneamente raffigurata la distanza tra il vetro e la parete sinistra della clessidra stessa, ipotizzando più corretta la distanza ravvisabile sulla destra e sulla parte frontale dell’oggetto;
  • l’analisi delle delle varie stecche orizzontali, rappresentate da tre strisce di colori differenti, ci ha indotto a credere che la sezione di ogni singola stecca potesse essere esagonale, in analogia del resto ad altri riscontri iconografici e originali.

Stecche dei montanti

Sbozzatura delle stecche dei montanti

I piccoli montanti verticali a sezione esagonale sono stati realizzati a mano; si è scelto il legno di acero, in quanto permette la realizzazione di intagli minuti, essenza in effetti ben attestata per tali lavori anche in mobilio ed altri manufatti dell’epoca.

Tutte le componenti della clessidra sono state realizzate a mano.

Preparazione dei singoli componenti

Preparazione dei singoli componenti

Intaglio degli incassi atti ad accogliere le varie componenti del manufatto.

Intaglio degli incassi atti ad accogliere gli elementi strutturali

Assemblaggio di prova

Assemblaggio di prova

Per cerare ed impermeabilizzare a dovere tutte le parti lignee della clessidra, s’è preferito procedere prima dell’assemblaggio definitivo, saltando i punti in cui la colla doveva penetrare al meglio nelle fibre del legno; nel contempo si sono effettuati dei forellini e dei tagli sui piccoli montanti, lavorazione preliminare all’inserimento dei “cunei di fissaggio”, atti ad evitare il pericoloso propagarsi di fenditure lungo le venature delle stecche.

Lavorazioni al test di assemblaggio

Ultime lavorazioni

Assemblaggio definitivo con cunei e stecche

Assemblaggio definitivo con cunei e stecche

MANUFATTO FINITO

MANUFATTO FINITO


Ringraziamo sentitamente l’amico Ezio Zanini (www.viduquestla.it) per il supporto offerto nella realizzazione della replica in oggetto e per gli scatti del work-in-progress.

Articolo di ANDREA CARLONI (2017)

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Vivere un’esperienza venatoria di grande intensità, seguita da una meritata pausa in un ambiente di raffinata accoglienza. Attorniati dal tepore del camino, rigenerati da un pasto frugale seguito da momenti di gioco e di manutenzione delle armi da getto: più o meno così doveva svolgersi un giorno di “relax” presso il Casino di Caccia Borromeo a Oreno di Vimercate, nel Ducato di Milano di metà ‘400.

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Ringraziamo sentitamente il Conte Alessandro Borromeo per averci consentito di realizzare un analogo spaccato di vita quotidiana all’interno della sua splendida proprietà.

Più precisamente, la Ricostruzione Storica di IMAGO ANTIQUA (clicca per vedere tutte le foto) si è tenuta all’interno della torre di impianto trecentesco ubicata a nord-ovest del complesso della cosiddetta Corte Rustica, ampliata nel tardo XV secolo e legata alla famiglia dei De la Padella, come peraltro testimoniato da alcuni stemmi araldici “parlanti” che campeggiano sulle pareti interne, interamente affrescate entro la prima metà del secolo.

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Il rinvenimento di tali affreschi, ispirati al tema venatorio e dell’amor cortese, avvenne nel 1927 in modo del tutto casuale, ad opera del Conte Gian Carlo Borromeo, padre dell’attuale proprietario; i lavori di ripristino furono portati a termine sotto la direzione del Prof. Mauro Pelliccioli, dell’Accademia di Brera.

L’autore, tuttora ignoto, secondo buona parte della critica è da porre in stretta relazione con la corrente stilistica degli Zavattari e del Ciclo dei Giochi di Palazzo Borromeo a Milano (F. Wittgens, 1933).

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Chi desiderasse approfondire la storia del sito, può consultare la scheda curata dalla Regione Lombardia: RINVIO ALLA SCHEDA (cliccare)

Un set fotografico dedicato agli affreschi è stato realizzato da Andrea Carloni, Presidente di IMAGO ANTIQUA: RINVIO ALLE IMMAGINI (cliccare)

Alla fine del mese di Ottobre 2014, IMAGO ANTIQUA ha avuto la preziosa opportunità di realizzare un allestimento del tardo Quattrocento all’interno dell’antico Monastero di Mezzano Scotti, nei pressi della più nota città di Bobbio (PC).

Foto articolo Luisa

Archivio Fotografico IMAGO ANTIQUA (2014) – Ricostruzione a Mezzano Scotti

L’evento, che ha inteso offrire un ideale spaccato di vita domestica nell’epoca in cui il sito era oggetto di commenda, sotto il governo sforzesco, si è inserito all’interno di un più ampio progetto di recupero del patrimonio storico-edilizio dell’antico borgo della Val Trebbia, culminato in una tesi di laurea discussa dalla Dott.ssa Manuela Ruggeri presso la Scuola Politecnica – Dipartimento di Scienze per  l’Architettura dell’Università di Genova.

Tale studio, con gli opportuni riadattamenti, è stato dato alle stampe per i tipi di Pontegobbo Editore nel giugno 2015, con il titolo Il Monastero di Mezzano Scotti di Bobbio. Progetto di recupero (collana “Itinerari di Natura e d’Arte”; ISBN 978-88-96673-58-4) e vede a pag. 54 un’immagine scattata durante la ricostruzione di interni curata dalla nostra Associazione. 

Copertina della tesi di laurea a cura di Manuela Ruggeri, discussa nel 2014 c/o l'Università di Genova

Copertina dello tesi di laurea della dott.ssa Manuela Ruggeri, discussa nel 2014 presso l’Università di Genova

 

L'immagine della nostra ricostruzione apparsa a p. 54 del saggio a cura di Manuela Ruggeri

IN ALTO, l’immagine della ricostruzione IMAGO ANTIQUA, a p. 54 della pubblicazione a lato

 

IMAGO ANTIQUA auspica di poter prender parte, negli anni venturi, ad ulteriori iniziative di valorizzazione ambientale nel comprensorio di Mezzano, coinvolgendo sia i cittadini che le Scuole locali.

Senza dubbio è di sprone ad un crescente impegno in tal senso la proficua collaborazione da noi instaurata con la disponibilissima Dott.ssa Luisa Follini, proprietaria di gran parte dell’ex complesso monastico di S. Paolo, che sta letteralmente mettendo anima e corpo per la miglior riuscita di questo entusiasmante quanto ambizioso progetto.

 

Articolo di LUISA FOLLINI (agosto 2015)
follinlu@supereva.it

Mezzano Scotti sarebbe un paese da scoprire, ma, tutto sommato, pare tenga ben poco a essere scoperto. Probabilmente per non perdere quella sua atmosfera di pace e riservatezza che lo contraddistingue e la qualità di vita dei suoi affezionati abitanti.

Vi si può grandemente apprezzare il bucolico contatto con la natura, il tranquillo succedersi delle giornate, la dimensione più famigliare che paesana della vita sociale, la vicinanza con la città di Bobbio (6 km) con le sue tante iniziative culturali e di svago, il fatto di essere lambito dalle limpidissime acque del fiume Trebbia e di trovarsi giusto in mezzo a due formazioni rocciose di grande interesse geologico: Pietra Parcellara e l’orrido di Barberino, uno dei luoghi più suggestivi di tutta la provincia. E’ situato in una conca fertile, da sempre il granaio del circondario. La sua esposizione soleggiata fa sì che vi si possano compiere anelli di passeggiate sempre al sole, apprezzatissime in inverno, tanto da essere stato definito da un gruppo di camminatori “la Caraibi della Val Trebbia”.

E’ un paese di antiche origini, ricco di storia e di… misteri. Probabilmente già esistente in epoca romana, ebbe un fortunato sviluppo con l’avvento dei Longobardi quando vi sorse un’abbazia dedicata a San Paolo, i cui resti, rimaneggiati nei secoli, sono conglobati in abitazioni private. Il periodo preciso della fondazione è ammantato di mistero. Il primo documento che ne cita i confini, parlandone come di un’istituzione già esistente e ben nota da tempo, è del 714.

La maggior parte degli storici collega la sua fondazione alla diaspora dei monaci di Bobbio, cui l’abate Attala, succeduto alla guida dell’abbazia nel 615 alla morte di Colombano, tentò di opporsi, ma che infine accettò lasciando i monaci liberi di disperdersi in “Maritima” e sulle montagne per seguire liberamente la loro vocazione di apostolato tra le genti.

E’ abbastanza curioso che due istituzioni monastiche sorgessero così vicine, ad appena 6 km di distanza, se non fosse proprio il “modus operandi” di Colombano che a Luxeuil e in altri siti europei già si era avvalso di analoghi criteri. Anche i vastissimi possedimenti fondiari dei due monasteri di Bobbio e di Mezzano, distribuiti a macchia di leopardo in Italia settentrionale e centrale lungo la via francigena, erano tra loro confinanti, “come due fratelli che si spartiscono l’eredità paterna”, annota il prof. Nuvolone.

Entrambi i monasteri vi svolgevano la stessa identica funzione di ricovero, sostegno e cura dei pellegrini in marcia verso i “loca sacra” della cristianità. Avevano anche lo stesso “status” giuridico di monasteri regi direttamente dipendenti dall’autorità pontificia. Il monastero di S. Paolo perse la sua indipendenza con papa Pasquale III (1099-1118) che lo sottopose alla diocesi piacentina.

Nel X secolo i monasteri di Bobbio e di Mezzano caddero in potere del marchese Oberto. Mentre Bobbio, grazie all’abate Gerberto di Aurillac, che divenne poi papa Silvestro II (il papa dell’anno mille), riuscì a riscattare buona parte del patrimonio monastico, Mezzano rimase sottomesso ai discendenti obertenghi locali, ovvero i marchesi Malaspina, che nel 1186 ottennero dall’imperatore Federico I la giurisdizione feudale con il titolo comitale su tutti i territori di pertinenza monastica.

L’ubicazione del monastero di S.Paolo, più che strategica per essere di passo verso Liguria, Lombardia, Piemonte e Toscana, ne faceva uno snodo viario della massima importanza. Vi transitavano truppe, pellegrini provenienti spesso dal nord Europa, mercanti. Attorno a Compiano, dipendente da Mezzano, un grosso mercato, già attivo dall’epoca romana, favoriva scambi commerciali tra la riviera e i territori interni. La vicinanza con la ben più famosa abbazia di Bobbio certamente oscurò le vicende del monastero del Mezzano, che rimane comunque una delle istituzioni più importanti dell’Alto Medioevo.

Attorno al monastero si formò il paese. Gran parte delle sue abitazioni mantengono tutt’oggi collegamenti tra le loro cantine, qua e là tamponati, a testimonianza di un unico progetto costruttivo.

Ben presto l’Abbazia mezzanese entrò nelle mire espansionistiche dei Fieschi. Tra loro si annoverano vari abati. Il più famoso è Opizzo Fieschi, conte di Lavagna, nipote di papa Innocenzo IV, che, sempre da abate del Mezzano, fu incaricato di un’importante missione diplomatica in Polonia, Russia, Slesia e Prussia, con l’incarico di organizzare una Crociata contro i Tartari e di incoronare il principe russo Daniele. Successivamente Opizzo Fieschi fu eletto, nel 1247, patriarca di Antiochia in Siria. Pur indirettamente Mezzano si è trovato quindi inserito in eventi di caratura internazionale. A livello locale invece, l’abbazia di S. Paolo, avamposto guelfo nella ghibellina Valtrebbia, era in balia delle feroci lotte tra le due contrapposte fazioni politiche. Ragioni difensive indussero, giusto in quei tempi, la sua trasformazione in castello (così è citato in vari rogiti, con tanto di porta sottana e soprana), attraverso la costruzione di mura, fossati, spalti. Stessa sorte capitò ad altri monasteri di campagna.

I tempi erano così insicuri che i pochi monaci superstiti del Mezzano preferirono ritirarsi nel torrione di Cà Donica, “a un tiro di balestra da Mezzano”. Una galleria sotterranea, tanto ampia da lasciarvi passare dei cavalli, collega tuttora Cà Donica a Mezzano, passando sotto il rio Dorba, ma non è più percorribile. Se ne conosce l’imboccatura, ora chiusa, non il punto di arrivo. La sua documentata esistenza e il suo tracciato ormai perso sono comunque di stuzzicante stimolo alla fantasia.

Verso la fine del XIII secolo un ramo della potente famiglia guelfa piacentina degli Scotti ottenne in enfiteusi la maggior parte delle terre del monastero, e diventò la vera dominatrice della vallata, in netta contrapposizione agli interessi abbaziali.

Intorno al 1320 il castello di Mezzano fu distrutto, di certo per mano ghibellina. Davide Scotti, allora capitano a Mezzano, lo fece ricostruire, autorizzando ai lavori gli abitanti di Aglio in val Perino.

Nel XV secolo si accentuò la decadenza del monastero quando i duchi di Milano – Visconti e Sforza – da cui dipendeva il territorio piacentino, concedettero in godimento i beni del monastero a parenti e funzionari col titolo di abati commendatari, interessati più a intascare personalmente le rendite che dedicarle alle esigenze del culto. Gli Scotti, ottenuta l’investitura feudale di Mezzano dai duchi di Milano, ne approfittarono subito per imporre tasse, mal digerite e contestate, a tutti i fittabili del monastero. Al commendatario risultava quindi sempre più difficile raccogliere da fittavoli ed enfiteuti quanto gli spettava. Fu così che l’ultimo commendatario, Girolamo Becchetti, rinunciò al suo beneficio in cambio di una più sicura rendita vitalizia.

La bolla papale di Giulio II dell’11 febbraio 1507 sancisce la definitiva soppressione del monastero di Mezzano e l’aggregazione dei suoi beni al monastero di S. Maria della Passione di Milano.

Davide Scotti (ritorna il nome dell’antenato), vero brigante feudale, indusse con le più svariate ostilità i monaci milanesi a svendere, più che vendere, le proprietà del monastero. Ma non pagò mai il pattuito, per cui i monaci ne chiesero e ottennero la restituzione. Trovarono un nuovo acquirente nella persona del conte Antonio Caracciolo, che si stabilì proprio nella sede dell’antico monastero, che divenne, anche per i suoi discendenti, un’accogliente dimora di campagna. Nel 1636 l’ex complesso monastico subì il saccheggio delle milizie bobbiesi, mentre nel 1806 insieme alla chiesa parrocchiale sfuggì all’incendio del paese decretato da Napoleone. A metà ottocento i Caracciolo lo vendettero agli attuali proprietari che ancora ne detengono la maggior parte.

Un piccolo mistero è nel nome del paese. Mezzano indica ovviamente una terra di mezzo, ma sull’appellativo Scotti circolano diverse ipotesi. Chi lo collega all’omonima famiglia feudataria e chi invece agli “scoti” o “scotti”, ovvero ai monaci provenienti dall’Irlanda, che, pare, lì si allocarono fin dal VII secolo sistemandosi in un luogo appositamente dedicato ove poter svolgere il proprio ministero secondo le proprie rigide regole e convinzioni.

Curioso comunque che il nome era “Mezzano Scotto”, fino al 1927, quando la frazione si scorporò da Travo per confluire nel Comune di Bobbio

Indubbia è l’antichità del paese. Quando agli inizi del VII secolo tutta la zona era una fitta boscaglia in cui si stagliavano solo quelli che ora sono i centri storici di Piacenza, Milano, Pavia, Cremona, Genova, ben inserito tra queste rinomate località c’era anche Mezzano. Il suo monastero era lì a svolgere un’importante funzione politica, sociale, umanitaria, per di più a valenza europea. Cosa non da poco.

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