Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 19.06.2024; tutti i diritti riservati.


INQUADRAMENTO TIPOLOGICO GENERALE

La consuetudine di sospendere alla cintura piccoli coltelli racchiusi in foderi di pelle, solitamente stampigliati o incisi, risulta ampiamente attestata in tutta l’iconografia bassomedievale e ben oltre i limiti del XV secolo.
Le dimensioni delle loro lame non sono in genere condizione sufficiente per ascriverli alla categoria delle “armi”, ma piuttosto tra gli utensili di uso comune. Si trattava, in estrema sintesi, di oggetti dalla funzione squisitamente pratica e civile, sottolineata da un tagliente in genere troppo ridotto per un impiego in campo bellico.

GIACOMINO DA IVREA, ciclo affrescato nel 1441; Cappella di S. Michele (Verrayes, fraz. Marseiller, AO) – copyright A. Carloni (2021)

ANDREA DELITIO, “Fuga in Egitto” (dett.), 1470-1480c; Coro dei Canonici c/o Cattedrale di S. Maria Assunta (Atri, TE) – copyright A. Carloni (2013)

Approcciandosi ad una descrizione tipologica delle lame di coltello, come succede per molti attrezzi di impiego quotidiano, bisogna tuttavia premettere il forte conservatorismo delle forme funzionali, che si possono mantenere quasi intatte per secoli e secoli, complicando o vanificando qualsiasi sforzo d’inquadramento troppo stretto.
A livello descrittivo, tuttavia, è comunque possibile individuare almeno tre grandi “famiglie”, tutte attestabili nel nostro periodo di riferimento, sebbene con diverso profilo di rarità: serramanico, a codolo stretto, a codolo largo.

Lama di coltello a serramanico rinvenuta presso gli scavi del Castello di Attimis (UD), XIV secolo


La prima di queste era caratterizzata da una lama (solitamente di dimensioni contenute) terminante in una linguetta collocata vicino al perno ove ruotava dentro al manico, a sua volta realizzato in materiale organico o talvolta in metallo. Tale linguetta, secondo un un impiego ancora attuale nei rasoi, aveva la funzione di facilitare l’estrazione del tagliente e mantenerlo in posizione, senza l’ausilio di molle o meccanismi d’arresto.
Ritrovamenti di coltelli a serramanico di ogni genere sono relativamente sporadici in contesti bassomedievali, in rapporto a quelli a lama fissa. Su un campione di ben 310 reperti individuati in scavi londinesi, per esempio, solo due sono a serramanico; situazione analoga a Rougiers, nel sud della Francia, dove questa tipologia risultava minoritaria. Restando in ambito italiano, alcuni esemplari figurano in repertori friulani (come Attimis e il Castello della Motta) e in altri contesti quali Castel Pietra a Gavorrano (GR) e Tremona, nel Canton Ticino.
Per quanto poco comuni, dunque, i serramanico dovevano essere sufficientemente diffusi e declinati in una rosa di forme difficilmente inquadrabili in una precisa area geografica o in un arco di tempo troppo ristretto, trattandosi d’una tipologia già documentata almeno dall’Alto Medioevo.

Coltello originale con manico in legno, tipologia “a codolo stretto”; prov. Inghilterra, 1480-1520 c. (collezione privata)

La seconda famiglia, certamente più comune della precedente, è quindi costituita dai tipi “a codolo stretto”, ove la lama terminava in un sottile prolungamento a “chiodo” inserito dentro a un manico di vario materiale e qui ribattuto. Dall’età romana tale forma risulta pressoché esclusiva in contesti nazionali insieme ai serramanico almeno fino al XIII secolo, quando ad essa cominciarono ad affiancarsi i tipi “a codolo largo”, come dimostrato in maniera non equivoca dagli scavi di Castelfranco Emilia (MO).
Analogamente a moltissimi coltelli odierni, due guanciole erano qui fissate alla superficie spianata del codolo tramite una serie di ribattini passanti, col risultato di un insieme decisamente più robusto rispetto alle tipologie a codolo stretto, sempre più rare col progredire del Trecento e ormai residuali nella seconda metà del Quattrocento.

Coltello originale con manico in legno, tipologia “a codolo largo”; prov. Inghilterra, 1480-1520 c. (collezione privata)

L’uso di trattenere le guanciole del manico tramite rivetti è in ogni caso corroborato nel Duecento anche per via iconografica: nelle scene di battaglia affrescate sulle pareti del Palazzo Comunale di San Gimignano, infatti, compaiono già alcune basilarde dotate di un manico a guanciole rivettate tra il 1288 ed il 1292, segnando un prezioso termine iconografico ante quem per questa soluzione tecnica.
Anche nel contesto ticinese di Tremona, manufatti di questo genere si attestano già in ambiti di XIII secolo, rafforzando l’idea di una transizione tipologica molto graduale a partire dal secondo Duecento.

Coltello originale con manico in osso, tipologia “a codolo largo”; prov. Inghilterra, 1480-1520 c. (collezione privata)

Tornando allo specifico della seconda metà del Quattrocento, i coltelli appartenenti a quest’ultima famiglia risultano decisamente i più documentati a livello iconografico ed archeologico, con una declinazione di varianti strepitosamente ampia.
A livello strutturale si osservano tuttavia alcune costanti che attraversano tutto il nostro periodo di riferimento.
In prima battuta, il codolo sul dorso viene quasi sempre a rastremarsi verso l’estremità del manico: espediente utile a ridurne il peso, spostando il bilanciamento della lama verso la punta. Un baricentro più avanzato, infatti, rendeva meno soggetto al ribaltamento un coltello appeso alla cintura, minimizzando (insieme a foderi conformati per accogliere la parte del manico più prossima alla lama) il rischio di smarrimento accidentale.

Un’altra caratteristica tecnica pressochè invariata nei coltelli della nostra epoca si localizza nel punto di passaggio tra guanciole e lama, il quale poteva essere lasciato franco da decorazioni oppure arricchito da elementi in lega di rame diversamente sagomati, ma comunque sempre rivettati al corpo del coltello.
In taluni casi, la transizione poteva essere segnalata da una lamina metallica (quasi sempre ottone, più di rado argento) che sovente veniva interposta tra guanciole e codolo, qui semplicemente ripiegata verso l’alto a rifasciare l’estremità delle guanciole stesse.

Coltellinaio al lavoro; “Mendelschen Hausbuch”, Amb. 317.2° Folio 95 verso, Mendel I, 1476 (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

Col volgere del Quattrocento e il principio del Cinquecento, tuttavia, gli antichi coltellinai iniziarono a realizzare un ringrosso alla base del codolo, finendo per sostituire le vecchie applicazioni con un nodo (spesso modanato) forgiato in un sol pezzo nel corpo del coltello: nasceva così una forma “moderna” che nel Cinquecento avrebbe rapidamente conosciuto una vasta fortuna, soppiantando le precedenti.
La varietà tipologica estrema di queste soluzioni permise una vastissima gamma di forme e decori, legati a specifiche funzioni, aree geografiche, prezzo e gusti individuali: una galassia che proveremo ad esplorare (anche solo in minima parte) nel prossimo contributo legato al mondo della coltelleria.

Il banco del coltellinaio nel mercato storico-didattico di IMAGO ANTIQUA – copyright U. Fedenco (2023)

Bibliografia sintetica

BELLI M. 2002, I reperti metallici provenienti dallo scavo di Castel di Pietra: studio preliminare dei contesti e presentazione della tipologia morfologica, inC. Citter(a cura di), Castel di Pietra (Gavorrano – GR): relazione preliminare della campagna 2001 e revisione dei dati precedenti, “Archeologia Medievale”, XXIX, Firenze, pp. 165-167.

COWGILL J. – DE NEERGAARD M. – GRIFFITHS N. 1987, Medieval finds from excavations in London: 1. Knives and scabbards, Woodbridge.

DEMIANS D’ARCHIMBAUD G. 1980, Le fouilles de Rougiers (Var). Contribution à l’archéologie de l’habitat rural médiéval en pays méditerranéens, Paris.

DU HEAUME G. 2020, The Queenhithe Collection, “Journal of the Antique Metalware Society“, 25, Suffolk.

LIBRENTI M. – ZANARINI M. 1998, Archeologia e storia di un Borgo Nuovo bolognese: Castelfranco Emilia (MO), in Archeologia in Emilia Occidentale. Ricerche e studi, a cura di S. Gelichi, Mantova, pp. 79-113.

MARTINELLI A. 2008, I reperti metallici, in Tremona Castello. Dal V millennio a.C. al XIII sec. d.C., a cura di A. Martinelli, Firenze, pp. 272-311.

PIUZZI F. 2003 (a cura di), Lo scavo del Castello della Motta (Povoletto), Firenze.

VIGNOLA M. 2003, I reperti metallici del Castello Superiore di Attimis, “Quaderni Friulani di Archeologia”, XIII, Udine, pp. 63-81.

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 22.07.2023; tutti i diritti riservati.

Correva l’anno 1474 quando nella Milano sforzesca fu avviata una riforma che costituì una tappa fondamentale per la storia della monetazione cittadina, ma non solo. Infatti, dopo la recente esperienza della “lira Tron” veneziana del 1472, il grossone milanese da 20 soldi rese “concreta” e coniata la lira, che fino a quel momento era stata soltanto un nominale di conto.

Vennero così alla luce i cosiddetti “testoni”, che ritraevano il duca Galeazzo Maria Sforza con eccezionale livello di dettaglio, alla pari della migliore medaglistica del periodo.

Piero del Pollaiolo, Ritratto di Galeazzo Maria Sforza, Galleria Nazionale degli Uffizi (1471; fonte Wikipedia).

Al dritto di questa grande moneta, oltre alla folta chioma del signore, risaltano l’armatura in piastre (sulla parta alta del suo busto è ben visibile lo spallaccio) e il collo fasciato da un gorzarino di maglia, secondo la prassi militare del periodo. Al rovescio compare invece l’antico blasone visconteo, sormontato dal cimiero ducale con il drago alato e accostato da G3′ – ‘M; con i tizzoni e secchie.
Si tratta, beninteso, di una moneta piuttosto massiccia, con un diametro intorno ai 29 millimetri ed un peso di circa 9,78 grammi al titolo di 962/1000, molto elevato per l’epoca, la quale, oltre a celebrare il duca quasi comparandolo alle gloriose figure della Roma imperiale, testimonia egregiamente il dinamismo economico raggiunto dall’Italia nel secondo Quattrocento.

Dritto e rovescio di un testone da 20 soldi di Galeazzo Maria Sforza (1474-1476; collezione privata e foto dell’autore).

Sempre in ambito milanese, la versione più leggera e sottile del testone, del valore di 10 soldi, condivideva il tipo del ritratto ducale con la “sorella maggiore”, ma al rovescio mostrava lo stemma sforzesco affiancato dalle iniziali del duca.

Dritto e rovescio di un mezzo testone da 10 soldi di Galeazzo Maria Sforza (1474-1476; collezione privata e foto dell’autore).

Non è questo il luogo per dibattere circa l’opinione di alcuni studiosi che videro in tali monete lo spartiacque tra monetazione medievale e moderna: tuttavia, l’esperienza milanese fece sicuramente scuola e a breve volgere seguirono Ferrara, il ducato di Savoia e molte altre signorie minori.

Per quanto le monete giacciano perlopiù nascoste nel fondo delle scarselle e dunque non appaiano in scenari ricostruttivi con la stessa evidenza di abiti, armamenti, suppellettile etc., è comunque indiscutibile che anche questi piccoli dischetti metallici possano aggiungere una tessera al più variegato mosaico della rappresentazione del passato. A ben guardare, erano a tutti gli effetti parte integrante della vita quotidiana e plastico riflesso del governo che le aveva prodotte, oltre a preziosi manufatti che dal Rinascimento assorbirono il gusto artistico, tramandandolo fino a noi grazie alla serialità della coniazione.

Dischiudere la scarsella per mostrare al pubblico monete rappresentative dell’epoca ricostruita, può dunque rappresentare uno step ulteriore nella divulgazione storica, specialmente in contesti museali o dove l’interazione col pubblico sia più lunga e ravvicinata, come nei mercati.

Ricostruzioni di monete del tardo XV secolo, impiegate negli eventi didattici di IMAGO ANTIQUA

Per una recente sintesi sulla zecca di Milano, si consiglia la pubblicazione relativa alle monete del medagliere di Vittorio Emanuele III (Bollettino di Numismatica, 43), disponibile on-line QUI

Articolo di MARCO VIGNOLA e AUGUSTO BOER BRONT
Pubblicato il 12.02.2022; tutti i diritti riservati.
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Rampollo della nobile famiglia degli Albizzeschi, Bernardino da Siena nacque a Massa Marittima nel 1380 e morì il 24 maggio del 1444, venendo infine canonizzato a sei anni precisi dalla morte.

La sua infaticabile attività di predicazione lo rese una delle figure spirituali più influenti del Quattrocento italiano, guidandolo tanto nelle piazze quanto nelle più grandi corti dell’Italia del suo tempo.
A differenza di altri predicatori contemporanei, il suo stile si manteneva tuttavia ben lontano da una retorica eccessiva, preferendogli una narrazione semplice e nutrita di esempi tratti dalla vita quotidiana, che potessero raggiungere anche le menti più semplici e meno avvezze agli artifici retorici cari agli umanisti.

Un esempio concreto delle sue umili (ma efficaci) parole ci è trasmesso dalle 45 prediche tenute a Siena nell’estate del 1427 in Piazza del Campo, trascritte stenograficamente su tavolette cerate da Benedetto di maestro Bartolomeo.
Una di queste in particolare, intitolata “La buona corazza”, risulta illuminante per gli studiosi di oplologia e di metallurgia più in generale. Qui Bernardino fa esplicito riferimento a un incontro da lui avuto durante un suo soggiorno milanese (probabilmente intorno al 1419-20) con un “perfetto maestro” armoraro, che gli mostrò come distinguere una buona corazza da una di qualità inferiore. Lasciamo a questo punto la parola a Bernardino stesso:

«Quando io fui a Milano, io la imparai a cognòsciare da uno perfetto maestro, e dissemi la ragione a volerla fare buona, come ella voleva essere fatta. E dissemi che a volerla buona, non voleva essere né d’acciaio né di ferro. O di che la faremo dunque? Dissemi che voleva essere fatta in questo modo: che voleva essere da uno lato acciaio e dall’altro di ferro. E volevasi fare in questo modo, che si voleva fare piastre d’acciaio puro e piastre di ferro puro. Se fusse tutta di ferro, non sarebbe forte, ché il guirrettone la passarebbe: e se fusse tutta d’acciaio, la percossa della lancia o d’altro la spezzarebbe. E però si voleva fare dell’uno e dell’altro, cioè di fuore l’acciaio e di dentro il ferro, e bàttare insieme l’uno coll’altro, e farne uno corpo, ed in quello modo sosterrebbe alla percossa, ed anco non passarà mai il ferro: una alteri coniungitur: e così sarà perfetta».

(Novellette ed esempi morali di San Bernardino da Siena, a cura di A. Baldi, 1916, p. 79)

FIG. 1 – Bacinetto con ventaglia, 1390-1410 c. (Wallace Collection, inv. A69); foto di Augusto Boer Bront

Il passaggio, ben comprensibile in ogni suo punto senza fraintendimenti lessicali, dimostra come una “buona corazza” milanese avesse caratteristiche più complesse di quanto sia immediatamente visibile ad occhio nudo e come alle piastre si applicassero processi tecnologici analoghi a quelli di alcune lame. In queste, infatti, l’unione di ferro e acciaio non era certamente una novità, perché l’acciaio attraverso la tempra può raggiungere strutture di grande durezza come la martensite (una forma polimorfa metastabile dell’acciaio).

Se un tagliente molto duro in un coltello poteva offrire grandi vantaggi a livello di tenuta del filo, per contro una lama interamente martensitica avrebbe sofferto il rischio di frantumarsi se percossa, non diversamente da un vetro. Unendo un tagliente duro ad un dorso di ferro più duttile, invece, l’utensile avrebbe riassunto i benefici della resistenza del filo alla tenacità del ferro, offrendo un eccellente compromesso tra robustezza e capacità di resistere ai colpi.

Questo concetto applicato ad una piastra difensiva realizzata in due strati, come abilmente spiegato da San Bernardino, avrebbe pertanto coniugato la maggiore resistenza alla penetrazione di uno strato esterno più duro alla duttilità della sezione interna.
Un verrettone, per esempio, avrebbe più difficilmente scalfito e penetrato la scorza temprata, mentre colpi di lancia o altre azioni percussive non avrebbero portato la piastra ad infrangersi, ma piuttosto l’avrebbero ammaccata con minori conseguenze per il combattente.

FIG. 2 – Bacinetto con ventaglia, 1390-1410 c. (Wallace Collection, inv. A69); foto di Augusto Boer Bront

L’eccezionale testimonianza di Bernardino trova peraltro conferma nell’esame ravvicinato di un bacinetto probabilmente milanese e oggi alla Wallace Collection, databile intorno al 1390-1410, ovvero ad un periodo non distante dalla predica del Santo.

Sui bordi di questo prezioso manufatto, è chiaramente apprezzabile in più punti una struttura stratificata della piastra (figg. 1-2), che conferma in pieno il testo della predica, con un riscontro diretto e di rara efficacia della perizia eccezionale raggiunta dagli armorari milanesi tra Trecento e Quattrocento.

Un “segreto dell’arte” pervenuto sino a noi grazie alle parole proferite in un giorno d’estate del 1427 in Piazza del Campo, da uno dei Santi più emblematici dell’Italia del Quattrocento.

PRINCIPALI FONTI DI RIFERIMENTO

Vita di San Bernardino: CLICCA QUI

Edizione delle sue Novellette: CLICCA QUI

Scheda del bacinetto presso la Wallace Collection: CLICCA QUI

Manifattura delle lame di coltello: Cowgill J., De Neergard J., Griffiths N. (a cura di), Knives and Scabbards, Woodbridge, 1987, p. 62 e ss.

La “ricostruzione storica”, intesa come approccio metodologicamente corretto alla restituzione viva del passato, si presta non soltanto alla didattica frontale, ma anche alla realizzazione di supporti audiovisivi proiettati in contesti museali.

Nella fattispecie, presentiamo un breve filmato realizzato da Matteo Sicios, con testi di Alessandro Giacobbe, nell’ambito di un progetto finanziato dalla Fondazione Agostino de Mari per il Museo Diocesano di Albenga.

Sebbene ancora poco conosciuto alle masse, il museo presenta nella cornice stupenda dell’antico palazzo vescovile, una collezione che spazia dalle ceramiche medievali rinvenute nell’attigua cattedrale, fino a quadri di autori celebri (primo su tutti Guido Reni), per includere oggetti liturgici medievali, codici miniati e sculture. Tra le argenterie particolare rilievo spetta ad una testa reliquiario realizzata dall’orefice Bernardo Folco; rara e preziosa testimonianza di una scuola di oreficeria locale, florida tra Tardo Medioevo e prima età moderna.

Le informazioni a noi giunte sulla persona di Bernardo sono purtroppo molto scarse. Unica sua opera superstite è infatti il busto reliquiario di San Verano di Cavaillon (m. 590), le cui reliquie, molto venerate ad Albenga, trovano ancora riposo nella cattedrale dedicata a San Michele.

Sappiamo che il 2 dicembre del 1470, Gio Antonio Costa del fu Nicolino, impose nel suo testamento la spesa di 60 lire per l’esecuzione di un raffinato reliquiario argenteo rappresentante la testa del santo, completata e firmata dal Folco nel 1475.

La raffinatezza del manufatto artistico depone a favore del suo notevole dominio del metallo prezioso, mentre la dispersione della sua produzione artistica fu probabilmente causata dal sequestro dei tesori ecclesiastici attuato in epoca napoleonica, dopo l’istituzione della Repubblica Ligure nel 1797.

L’esistenza di una scuola di orefici locali, tuttavia, rivela ancora oggi la notevole ricchezza culturale di Albenga del Tardo Medioevo, ulteriormente confermata dalla pletora di “frescanti” che ammantarono le chiese delle sue vallate in coltri affrescate, ancora in parte sopravvissute al vaglio dei secoli: episodi forse relegati al ruolo di “arte minore”, ma che ci trasmettono l’immagine di un Medioevo tutt’altro che buio e monocromatico, come purtroppo traspare in recenti produzioni hollywoodiane.

Per approfondimenti: La cattedrale di Albenga, a cura di J. Costa Restagno e M. C. Paoli Maineri, Albenga 2007.

L’Ass. Cult. IMAGO ANTIQUA ringrazia sentitamente il Museo Diocesano di Albenga per la gentile concessione della condivisione di questo video sui propri canali multimediali.
Esso fa parte della guida del Museo predetto ed è stato girato nell’estate 2020 presso il nostro spazio didattico permanente dedicato al Tardo Medioevo, sito a Zuccarello (CLICCA QUI per saperne di più).

Starring: Marco Vignola, nei panni dell’orafo Bernardo Folco

Testi e regia: Alessandro Giacobbe

Realizzazione: Matteo Sicios (www.matteosicios.com)

Finanziatore progetto: Fondazione Agostino de Mari

Si ringraziano: Don Mauro Marchiano, Gianmaria Mandara, Elena Fossati

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 14.05.2021; tutti i diritti riservati.
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Anche ben oltre i limiti cronologici del XV secolo, i manufatti ceramici rappresentano un elemento imprescindibile nel mondo ricostruttivo, non soltanto per i legami con la realtà storica che desideriamo riproporre, ma soprattutto per la loro intrinseca funzionalità quotidiana.

Tralasciando il pentolame da fuoco, il cui impiego richiede l’apprestamento di una cucina e di un focolare, la semplice ceramica da mensa è il compendio naturale di ogni banchetto e di ogni mescita, così come ciotole e scodelle sono un’alternativa più igienica (e storicamente inappuntabile) alle stoviglie in legno.

Non è ovviamente questa la sede per addentrarci nel merito della produzione ceramica del passato, perché troppe sono le tipologie susseguitesi nei secoli, con caratteristiche talvolta così chiare da permetterne una precisa collocazione produttiva geografica e temporale.
Ciò che qui preme, semmai, è indicare alcuni dei punti che rendono assai complessa una replica moderna dei manufatti antichi: problematica certamente viva in ogni ambito ricostruttivo (si pensi per esempio ai tessuti o alla difficile reperibilità di certi legnami stagionati e di giusta misura), ma particolarmente acuta quando si confrontino i prodotti di botteghe moderne e le ceramiche di antiche officine.

Piatto faentino in maiolica con profilo muliebre, famiglia gotico floreale, terzo quarto del XV secolo (coll. privata); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Piatto faentino in maiolica con profilo muliebre, famiglia gotico floreale, terzo quarto del XV secolo (coll. privata); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Il lavoro del ricostruttore storico, è risaputo, si scontra quotidianamente con la chimera di una “perfezione totale”, oggettivamente irraggiungibile, e la necessità di un compromesso sulla storicità delle repliche presentate: si tratta pertanto di un costante work in progress, ovvero di un processo di avvicinamento alla materialità del passato, condizionato tuttavia dalla disponibilità di materie prime adeguate e di strutture produttive idonee a ripercorrere i passi degli antichi artefici, ponendo il piede sulle medesime orme.

Tornando alla ceramica e limitandoci alle repliche bassomedievali, il principale limite alla loro perfetta ricostruzione è dato dalla difficoltà di reperimento di materie prime adeguate.

E’ risaputo che ogni ceramica rivestita subiva almeno due processi di cottura: il primo a corpo “nudo” e il secondo finalizzato a fondere la materia di rivestimento. La seconda cottura lasciava tuttavia scoperte alcune zone del biscotto, specie sotto il piede, a testimoniare la natura delle argille impiegate nella foggia. Nonostante i processi di depurazione cui venivano sottoposte, queste argille conservavano spesso degli inclusi e avevano colorazioni e caratteristiche specifiche a seconda degli ateliers d’origine.

Piede di panata orvietana o viterbese in maiolica arcaica (seconda metà XIV secolo; cfr Sconci 2011, p.74, n.88) a confronto con una replica moderna di maiolica arcaica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Piede di panata orvietana o viterbese in maiolica arcaica (seconda metà XIV secolo; cfr Sconci 2011, p.74, n.88) a confronto con una replica moderna di maiolica arcaica (coll. IMAGO ANTIQUA).

La riproduzione perfetta di un manufatto ceramico, pertanto, richiederebbe il recupero delle stesse argille usate in passato per ogni specifica tipologia e fabbrica, oltre a una loro complessa depurazione con le stesse tecniche antiche: processo forse non impossibile, ma certamente assai costoso e poco giustificabile sul piano commerciale. Le argille moderne, d’altro canto, si mostrano in genere assai più raffinate rispetto alle controparti antiche, segnando già in questo dettaglio un elemento di discontinuità (vedi foto dei piedi a confronto).

In seconda battuta, la resa estetica degli smalti e delle vetrine moderne tende a discostarsi dai prototipi per una maggiore “pulizia” e perfezione dell’insieme, mentre quelli antichi manifestano spesso bollosità, cavillature e disomogenei addensamenti, con un aspetto decisamente più irregolare.

Piccolo boccale a guisa di panata, Orvieto o Viterbo, fine XV secolo (coll. privata).

Piccolo boccale a guisa di panata, Orvieto o Viterbo, fine XV secolo (coll. privata).

Piccolo boccale a guisa di panata, Orvieto o Viterbo, fine XV secolo (coll. privata).

Visione di dettaglio sulle imperfezioni superficiali.

In questo senso, anche le condizioni di cottura in fornaci più primitive rispetto ai forni elettrici contemporanei, con una imperfetta distribuzione termica e pezzi accatastati in ogni ordine (e con volumi produttivi ben distanti da quelli delle repliche moderne), contribuiva a questa resa meno impeccabile delle coperture; dettaglio anch’esso dirimente nella distinzione tra una replica ed un manufatto originale.

Dettaglio dello smalto di un boccale di Motelupo Fiorentino (Berti 1997, gruppo 10.1, 1430-60; coll. privata).

Dettaglio dello smalto di un boccale di Motelupo Fiorentino (Berti 1997, gruppo 10.1, 1430-60; coll. privata).

Dettaglio di ciotola dall'ospedale di S. Maria della Scala (1436), dove si evidenziano le cavillature dello smalto e le sue bollosità (coll. privata).

Dettaglio di ciotola dall’Ospedale di S. Maria della Scala (1436), dove si evidenziano le cavillature dello smalto e le sue bollosità (coll. privata).

Se questi fattori rappresentano un limite difficilmente sormontabile, sul piano delle forme e dei colori la mano degli artefici moderni può invece reggere il passo delle produzioni antiche ed è su di essi, a mio avviso, che il ricostruttore dovrebbe oggi concentrarsi.
La correttezza delle forme e delle cromie, infatti, può senz’altro bilanciare le mancanze e rendere il compromesso pienamente accettabile, anche nell’ottica di una didattica di tipo museale.

Boccale del tardo XV sec, famiglia gotico floreale, con ornato faentino “a penna di pavone”, conservato presso il Museo della Città di Rimini (Collezione Cucci); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).

Boccale del tardo XV sec, famiglia gotico floreale, con ornato faentino “a penna di pavone”, Museo della Città di Rimini (coll. Cucci); a destra la sua replica (coll. IMAGO ANTIQUA).


Di seguito un video-intervento di approfondimento relativo alla maiolica italiana nel Quattrocento, tratto da un workshop organizzato da IMAGO ANTIQUA nel 2016:


Bibliografia:

– BERTI F. 1997, Storia della ceramica di Montelupo: uomini e fornaci in un centro di produzione dal XIV al XVIII secolo, vol. I, Montelupo Fiorentino.

– GARDELLI G. 1984, 5 secoli di maiolica a Rimini. Dal ‘200 al ‘600, Ferrara.

– LUSUARDI SIENA S. 1994, Ad mensam. Manufatti d’uso da contesti archeologici fra tarda antichità e medioevo, Udine.

– SCONCI M. S. 2011 (a cura di), Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto: Ceramiche, Prato.

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 18.11.2020; tutti i diritti riservati.
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Un’interessante lettera indirizzata al Missaglia da una non specificata autorità (con ogni probabilità Bona di Savoia o Cicco Simonetta), reca una data scritta a matita, “1478”, ma segue purtroppo il destino degli altri documenti costituenti l’unità “Autografi 231” dell’Archivio di Stato di Milano: ovvero, il distacco dal suo registro di appartenenza.

I fatti descritti, tuttavia, sono chiaramente allusivi ad un episodio bellico di un certo rilievo accaduto proprio in quell’anno, quando il 13 agosto le armate milanesi, condotte tra gli altri dal Conte Borella, vennero a battaglia nei dintorni di Busalla con i Genovesi capitanati da Roberto da Sanseverino. Lo scontro si risolse con una disfatta milanese, le cui tracce appaiono bene impresse nella lettera seguente. Oltre che nel morale, infatti, gli uomini d’arme milanesi si trovarono spogliati di una frazione o di tutto il loro equipaggiamento, a ragione del quale venne interpellato il Missaglia. A lui, infatti, si ordinava di rimpiazzare completamente le armature di coloro che le avessero perse e d’integrare quelle lacunose con le parti mancanti. Tutto il necessario avrebbe dovuto essere tratto dall’arsenale di Pavia (dove sappiamo che all’epoca di Galeazzo Maria Sforza erano custoditi armature sufficienti per coprire 500 uomini d’arme) oppure fornito con “ex novo”, qualora la munizione ne fosse stata sprovvista.

Armatura di Roberto da Sanserverino, Conte di Caiazzo (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Armatura di Roberto da Sanseverino (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Oltre alla conferma del ruolo centrale del Ducato nella distribuzione di armature ai soldati militanti sotto la sua bandiera, questa breve lettera regala alcuni spunti interessanti sulla genesi degli insiemi compositi. Non è cosa nuova, infatti, che tutte le armature milanesi giunte sino a noi, ad eccezione della “Galeazzo d’Arco” interamente d’officina Missaglia, siano marchiate con i “signa” riferibili a più botteghe. Molti di questi insiemi sono tuttavia il frutto di ricomposizioni moderne di elementi sparsi, compatibili per epoca e stile (si vedano per esempio quelle “delle Grazie” al Museo Diocesano di Mantova): altri, come la “Federico il Vittorioso” di Vienna, sono invece l’esito di un assemblaggio realizzato ancora in fase d’uso per specifici scopi torneari.

Marchi sulle scarselle dell'armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Marchi sulle scarselle dell’armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Il nostro documento, a ben guardare, dimostra come la genesi di un’armatura composita potesse derivare anche da episodi traumatici, come la perdita di qualche parte o il danneggiamento in battaglia. Le armature milanesi, nelle loro semplici ma elegantissime geometrie apprezzate in tutta Europa, erano agli occhi dei contemporanei prima di tutto dei preziosi “strumenti del mestiere”, che dovevano assolvere alla principale funzione di tutelare il combattente. Le loro forme levigate, prive in genere di specifiche ornamentazioni, potevano all’occorrenza favorire la sostituzione di singole componenti senza che l’armonia dell’insieme, almeno alla distanza, venisse meno.

L’esistenza di grandi quantitativi di protezioni in piastra negli arsenali, ai quali si poteva attingere per ogni evenienza, lascia supporre che la composizione di un’armatura con parti non concepite “ab origine” come insieme organico e realizzato su misura, fosse una prassi molto consueta.

Replica dell'insieme composito conservato presso il Museo Diocesano "F. Gonzaga" di Mantova, catalogato da L. G. Boccia con la sigla B3 (proprietà Andrea Carloni, IMAGO ANTIQUA).

Replica dell’insieme composito B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.), conservato presso il Museo Diocesano “F. Gonzaga” di Mantova (proprietà A. Carloni, IMAGO ANTIQUA).

La ricomposizione moderna di un’armatura con elementi antichi, eterogenei e compatibili, come per Santa Maria delle Grazie a Curtatone, sarebbe dunque un’operazione legittimata dalle antiche esigenze operative di creare nuovi insiemi con parti di diverse forniture e forse anche di differente bottega. Quante armature composite e quante omogenee fossero presenti sui campi di battaglia è oggi difficile (o forse impossibile) da stabilire, ma è tuttavia sicuro che ambedue le soluzioni abbiano convissuto.

In questo senso, si comprenderebbe meglio la prassi milanese di ripetere la marchiature su ogni singola parte della panoplia difensiva, come la “Galeazzo d’Arco” compiutamente dimostra: in tal modo, anche in caso di sostituzioni, la paternità di ogni elemento sarebbe stata dichiarata senza fraintendimenti.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: spallaccio destro

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): spallaccio destro.


A.S.M. Autografi 231.

Antonio Misalie

Dilecte noster. Per remettere le nostre gentedarme che sonno stati spoliati in zenoese, havemo ordinato darli de le armature de la nostra munitione, videlicet armature integre ad quilli ne sonno spoliati in tutto, ed a quilli ne mancha qualche pezo [1] remetterli quella parte gli mancasse. Pertanto volemo che circa questo exequischi quanto per suoi buletini ti commetterano el conte Borella et d. Michele de Batalia, così in dare de le armature integre, como in far conzare quilli pezi gli mancasseno, toliendo ogni cosa dela nostra munitione, excepto quando li pezi che mancarano non fusseno nela nostra munitione daragli de li tuoi et metteragli al nostro cuncto, et nuy te li pagaremo segondo li precii consueti.

[1] Segue lettera depennata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: bracciali con cubitiera armata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): bracciali con cubitiera armata.

Bibliografia sintetica:

– BOCCIA L.G. 1982, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone presso Mantova e l’armatura lombarda del 400, Busto Arsizio.

– MUSSO R. 2001, “El stato nostro de Zenoa”. Aspetti istituzionali della prima dominazione sforzesca su Genova (1464-1478), “Serta Antiqua et Mediaevalia”, V, Società e istituzioni del medioevo ligure, Roma, pp. 199-236.

– SCALINI M. 1996, L’Armeria Trapp di Castel Coira, vol. II, Udine.

– VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria.

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 02.03.2020; tutti i diritti riservati.
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In una delle ricerche d’archivio condotte anni or sono, rimasi affascinato da un breve documento del 2 aprile 1476 che, sebbene in poche righe, descriveva perfettamente il rapporto “difficile” delle società passate con il rischio di una pandemia.

Il trauma della grande peste del 1347-49, a oltre un secolo di distanza, era tutt’altro che sopito e la vigilanza contro l’episodico ripetersi di focolai d’infezione era sempre altissima. Nonostante una totale ignoranza degli agenti patogeni responsabili del contagio, il concetto di trasmissione da uomo ad uomo era chiarissimo e in mancanza di ogni terapia efficace si ricorreva all’unica forma di profilassi ancora oggi adottata: la quarantena e la limitazione degli spostamenti dalle aree di contagio.

Una volta identificate le zone dei principali focolai, l’ufficio di sanità imponeva un bando su ogni spostamento dalle aree a rischio, valido per chiunque, senza la minima distinzione di ceto. Tale bando, una volta diramato, veniva “gridato” pubblicamente dal cintraco (il pubblico banditore) nei luoghi a ciò deputati e costui doveva infine confermarne la lettura, come si evince dall’ultima parte del documento.
Più nel dettaglio, le aree dalle quali venivano interdetti gli spostamenti erano quelle di Diano e di Albenga e le pene minacciate per i contravventori ricadevano non solo sugli autori dell’infrazione, ma anche su coloro che li avessero ospitati; osti, tavernieri o comuni cittadini.

La gravità della sanzione, ovvero la pena capitale, dimostra quanto seriamente venisse presa la questione e quale livello di attenzione si imponesse alla cittadinanza intera. I diffusori di un contagio da aree infette, dopo la proclamazione di un divieto, erano in tutto e per tutto assimilati ai rei di omicidio.

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Archivio di Stato di Genova, A. S. 3507 (Diversorum Comunis Ianue)

Pro officio sanitatis Ianue.
+MCCCCLXXVI die IIa aprilis.
Preconate vos preco comunis et cetera
parte magnifici ac illustris domini ducalis,
ianuensis vicegubernatoris, et spectanti1 officii
sanitatis comunis2 Ianue. Che non sia alcuna
persona de che grado, stato o
condictione se sia chi ossa ne
prexuma andare per ritornare a
lochi infrascripti contaminati
de peste, ne etiam da quelli
venire, socto pena de la vita
et3 ogni altra pena peccuniaria,
in arbitrio del dicto officio. Li qualli
lochi infecti s(on)o questi:
la ripa de Diano
et tute le ville de Albenga.
Item se comanda a tu li hostorani,
tabernari et altre persone
che ne prexumen4 socto la predicta
pena receptarli.
[S.T.] Nicolaus de Credentia, cancellarius.
Die IIIa aprilis
Nicolaus Rasperius, cintracus comunis5, retulit
hodie6 proclamasse in omnibus ut supra in locis
publicis et consuetis.

 

1 così nel testo
2comunis” aggiunto in sopralinea
3 segno abbreviativo sopra “et” frutto di errore dello scrivente
4 così nel testo
5comunis” aggiunto in sopralinea
6hodie” aggiunto prima della linea

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 13.11.2019; tutti i diritti riservati.
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In ambito ricostruttivo e accademico, una vexata quaestio ricorrente è quella della finitura superficiale delle armature: ovvero, se queste venissero effettivamente lucidate “a specchio” o se ci si limitasse ad un trattamento meno radicale, con la permanenza di chiazze e un aspetto meno riflettente.

In un simile campo, è necessario premetterlo, la prudenza è d’obbligo, perché tra tutte le tappe produttive la lucidatura ha lasciato le tracce più labili in assoluto. Mentre le geometrie dei pezzi meglio conservati sono rimaste immutate (coi segni del maglio ancora impressi all’interno delle piastre) e i processi di tempra sono identificabili con precise analisi di laboratorio, la superficie del metallo non ha invece avuto analoga fortuna. Lasciando da parte i manufatti di scavo, logicamente deteriorati dalla giacitura, le stesse armature di arsenale hanno scontato secoli d’esposizione agli agenti atmosferici, con una manutenzione costante che ne ha modificato in maniera più o meno radicale l’aspetto: sicuramente in forma più elusiva rispetto ai manufatti archeologici e perciò quasi più insidiosa.

Quando una piastra si presenta oggi lucida, ma con macchie scure più o meno diffuse, come possiamo dunque capire se tali macchie siano il “fossile” di una corrosione poi rimossa o piuttosto un resto originale di calamina, residuo del processo produttivo? Per chi abbia pratica dei manufatti antichi, la somiglianza di queste tracce risulta evidente e foriera di fraintendimenti.
In questo senso, la migliore e non rara iconografia che ritrae realisticamente la lucidatura delle piastre (per una rassegna, CLICCA QUI), non sembra conservare evidenza di questi eventuali chiazze di calamina, alimentando il sospetto che, almeno nella produzione di livello medio-alto, i residui di lavorazione venissero puntigliosamente epurati o comunque rimossi fino al punto da non essere apprezzabili, se non ad un esame molto ravvicinato.

FRANCESCO PAGANO, Polittico di San Michele, 1492 c., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

FRANCESCO PAGANO, Polittico di San Michele, 1492 c., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli (fonte: Google Art)

Per quanto concerne la Milano del Quattrocento, sappiamo infatti che una schiera di artigiani si dedicava esclusivamente alla “molatura” e alla nettatura delle armature, che venivano loro consegnate dagli armorari in cambio di compensi stabiliti, come dimostrano due accordi stilati il 2 gennaio 1455 e il 31 luglio 1464 rispettivamente tra 20 e 25 magistri et amoratores et traversatores armorum civitatis et ducatus Mediolani, volti appunto a fissare un prezzario comune e condiviso per la loro prestazione professionale. Non si trattava ancora della formazione di un vero e proprio paratico, attestato in alcuni rogiti solo a partire dal 1476, ma piuttosto di alcuni passi ad esso preliminari, che però risultano molto interessanti per comprendere le dinamiche dell’arte.

In particolare, nel 1455 gli aderenti a questa “società” s’impegnavano a rinunciare a qualunque concorrenza sleale, non costruendo nuove traversere e non tenendo più di una traversera per volta, chiudendo persino le porte in faccia agli armaioli morosi con qualche altro sottoscrittore dell’accordo. Si stabiliva quindi un tariffario minimo al quale tutti dovevano attenersi, nella seguente misura:

– per una corazia (qui sicuramente designante un petto-schiena in piastre), XXVI soldi imperiali

– per un paio di arnexia saldarum (difesa per la coscia ed il ginocchio), XX soldi

– per un paio di brazalium saldarum (difese per le braccia in piastra), XI soldi

– per un paio di spalaziarum saldarum (spallacci in piastre), XII soldi

– per un paio di guanti in piastra, V soldi

– per un elmetto, XX soldi

– per una celata con visiera, VII soldi

– per una celata “da cavallo” (incerta la differenza con la precedente), VII soldi

– per una celata ab oculis (forse corrispondente alla tipologia “alla corinzia”), VIII soldi

PEDRO BERRUGUETE, Ritratto di Federico da Montefeltro con Guidobaldo bambino, 1476-1477 c., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

PEDRO BERRUGUETE, Ritratto di Federico da Montefeltro con Guidobaldo bambino, 1476-1477 c., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino (foto di Andrea Carloni – Rimini)

Quello che emerge in filigrana a queste carte, pertanto, è l’esistenza di un nucleo consistente di professionisti, i traversatori, che intervenivano in una fase terminale della produzione delle difese in piastra come imprenditori-artigiani autonomi rispetto agli armorari, in grado di dialogare con loro da una posizione di forza.

Nonostante le qualità meccaniche e le geometrie fondamentali dei pezzi venissero decisi a monte del loro intervento, l’importanza del loro ruolo nella filiera produttiva non deve a mio avviso essere sottovalutata. La loro maestria nel trattare la superficie del metallo sarebbe infatti apparsa evidente al compratore ancor prima delle qualità intrinseche del pezzo, aggiungendo molto all’appeal estetico del prodotto commercializzato.

Per quanto concerne le attrezzature da loro impiegate nel “mestiere”, sappiamo come già nella prima metà del Quattrocento a Milano si impiegassero mulini idraulici collegati a mole, per una nettatura ben più rapida della tradizionale pulizia manuale su panca, tramandata in numerose miniature del “Mendelschen Hausbuch” di Norimberga (segue immagine) e probabilmente mai scomparsa del tutto.

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 17 recto (Mendel I), 1425c

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 17 recto, Mendel I, 1425c (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

In una fase di grave penuria di farina, una grida della Repubblica Ambrosiana del 14 maggio 1447 imponeva infatti che entro otto giorni e per quattro miglia intorno alla città si levassero dalle traversere tutte le mole impiegate per le armi o i magli per la carta, adottando quelle atte alla macinazione del grano: segno inequivocabile di un processo meccanizzato già a quella data, in apparente anticipo rispetto all’area tedesca; la prima miniatura dell’Hausbuch che rimandi all’uso di mole idrauliche risale al 1523 (segue immagine).

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 138 recto (Mendel I), 1523

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 138 recto, Mendel I, 1523 (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

Non è dato purtroppo di sapere se alla fase di molatura meccanica seguisse un ultimo intervento manuale “di fino”, perché a quanto pare il “traversatore” si occupava non solo delle fasi precoci della pulitura, con la rimozione del nero di forgia, ma anche della manutenzione dei pezzi già finiti, che richiedeva un approccio meno energico rispetto alla nettatura iniziale. Tra le materie accessorie impiegate nella lavorazione delle armature dobbiamo infatti ricordare lo smeriglio, pesto buono e finissimo di Milano “che tagli bene” per lucidare; smeriglio che da Milano veniva esportato e che la bottega avignonese di Francesco di Marco Datini tra fine Trecento e inizio Quattrocento vendeva anche a traversatori e maestri armaioli locali e della regione avignonese. E’ dunque verosimile (pur restando nel campo delle ipotesi) che la prima sgrossatura venisse realizzata con una o più mole di grana differente, per completare l’opera con una smerigliatura manuale.

L’utilizzo dello stesso lemma “traversare” anche per lavori di semplice manutenzione, eseguiti verosimilmente a smeriglio, è comunque ben chiaro in una lettera inviata da Antonio Missaglia al Duca di Milano il 15 gennaio 1474, nella quale rispondeva agli ordini di Galeazzo Maria circa la munizione del castello di Pavia, ove si conservavano almeno 500 armature da uomo d’arme e molte corazzine:

«…Cum grande devotione ho recevuto le vostre littere de di XIIII° del presente, per la quale vostra signoria me scrive ch’io venga a Pavia cum lingenierii necessarii, per che vostra signoria se delibera chel se faci la traversera per tenere polite larme de la vostra munitione. Unde aviso vostra signoria che ho trovato el magistro de la traversera amalato in una gamba per modo chel dice de presente non poter venire, nec altri magistri da traversera non se trova in questa parte…».

La connessione tra la pulizia delle armature e la “traversatura” di pezzi già finiti e depositati nell’arsenale è qui molto evidente, come appare anche del tutto chiara la volontà di preservare immacolata la munizione ducale. L’enfasi sul mantenimento estetico delle armature, d’altro canto, emerge anche in una precedente missiva del 29 novembre 1472, dove si legge con quanta sollecitudine si operasse perché la ruggine non rischiasse di “macchiare” (maculare) le armature:

«….In questi di passati jo andai a Pavia per vedere se a quello fondicho novo era datto principio de fornirlo secundo se richiede per conservacione de le armature che se hanno a repponere dentro, che serano armature cinquecento da battagla. Et conferendo cum el conte Zoanno, non trovandoli essere datto principio alcuno, me respose che aspectava certa risposta da Iacobo Alphero, et havita farebe tale spazamento in fornire dicto fondicho et quello bissogna per la torre, che vestra celsitudine remanerebe satisfacta. Al presente, essendo venuto qui a Mediolano et deliberando de andare a vedere se alcuno principio era facto per repparare, che tanto digna monitione non se venisse a maculare, ho inteso como el dicto conte Zohanne ha avuto el modo da vestra excelentia de fare le provisione oportune, si de lo fondicho novo como de la torre, secondo lo disegno facto per lo inzegnero, che stato la per dicta ragione cum Antonio del Missalia…».

Lo stesso Missaglia, dunque, era stato chiamato in veste di tecnico per adottare tutti i provvedimenti necessari alla conservazione di un arsenale prezioso non soltanto sul campo di battaglia, ma parimenti per il prestigio del Ducato: perché una munizione così degna “non venisse a maculare”, con sgradite chiazze di ruggine.

Un dettaglio raro ed inconsueto circa la traversatura è infine tramandato da un esempio rarissimo di superficie originale rimasta chiaramente intoccata per oltre 5 secoli, ovvero una porzione di elmetto da uomo d’arme facente parte del complesso delle Grazie di Curtatone (elmetto B4). Come racconta il Boccia, una volta rimosso il frontale per l’intervento conservativo, è infatti emersa sotto la piastra una sezione non ossidata, che ancora conservava l’originale finitura scintillante (segue immagine).

Tratto da: G. L. BOCCIA, "Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l'armatura lombarda del '400", Bramante Editrice, Busto Arsizio, 1982 (tav. XX)

Tratto da: G. L. BOCCIA, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l’armatura lombarda del ‘400, Bramante Editrice, Busto Arsizio, 1982 (tav. XX)

Oltre a confortare l’accuratezza della migliore iconografia in merito ad una finitura “a specchio”, questo dettaglio dimostra inoltre come il traversatore operasse su pezzi smontati e il riassemblaggio finale fosse a carico dell’armaiolo, che li riprendeva in consegna dopo il trattamento.

In estrema sintesi, tornando alla vexata quaestio iniziale, iconografia e tracce materiali sembrano convergere sull’ipotesi che le armature milanesi del Quattrocento ricevessero una lucidatura a specchio, eseguita da un gruppo di artigiani specializzati proprio in questo step specifico della produzione armiera e non dagli armorari. Se questa venisse applicata all’intera gamma di prodotti o se piuttosto si limitasse a quelli di maggior pregio, resta tuttavia un quesito ancora aperto.

L’attenzione con la quale si operava perché la munizione ducale non si macchiasse e per mantenerla in buone condizioni estetiche, dimostrerebbe inoltre come tali macchie non fossero affatto viste come un blando inestetismo, ma piuttosto come un difetto da esorcizzare con ogni cura. Ben poco plausibile, pertanto, che gli armaioli milanesi accettassero di commercializzare prodotti con palesi segni esterni di calamina (per l’interno delle piastre, ovviamente, non esisteva questa cura), i quali ne avrebbero diminuito il pregio agli occhi dell’acquirente. Mentre le leggere asimmetrie di ogni manufatto antico non venivano percepite come fattore invalidante (sono ancora oggi riscontrabili anche sui pezzi di maggior pregio), le macchie di ruggine o i residui di lavorazione sarebbero invece apparsi solo come “macule” da consegnare alle sollecite cure di un traversatore e forse tollerate soltanto nella produzione più corrente…ma quella dei pezzi “da munizione” è tutta un’altra storia.

Per i dettagli bibliografici di questo contributo, che ne rappresenta una sintesi ragionata, si veda VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria (CLICCA QUI).

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 09.07.2019; tutti i diritti riservati.
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Uno dei rischi del riordino archivistico “per materia” imposto a Milano da Luca Peroni tra fine Settecento e primo Ottocento, fu la dispersione di preziose serie documentarie, dalle quali le carte venivano estratte senza alcun rimando alla posizione originale per essere organizzate più comodamente “per materia”.

Se questo principio semplificò la vita ai ricercatori, i quali si trovarono una messe di materiale suddiviso secondo categorie d’interesse, il danno fu evidente quando molte di queste carte, sottratte al registro o alla filza di pertinenza, furono private del loro contesto e della loro data, restando a “galleggiare” in mezzo ad altri documenti della più diversa provenienza.

E’ questo il caso dell’interessante rapporto di servizio redatto da un caposquadra di balestrieri, un certo “Conte de Turpia” nella seconda metà del XV secolo (datazione desumibile paleograficamente), che si sarebbe rivelato ben più prezioso se inserito nel suo giusto contesto, con una precisa collocazione geografica e cronologica ricavata dalle carte vicine.

Anche così, sebbene menomata del suo vincolo archivistico, questa pagina ci regala tuttavia un raro spaccato della vita quotidiana di una guarnigione, fatta anche di piccole beghe ed insubordinazioni. Colpisce, in particolare, una certa disinvoltura dei sottoposti nel disattendere le indicazioni del superiore, anche quando si fosse trattato di semplici suggerimenti di “buonsenso”, come non mettere “soto il culo” una brigantina giocando a carte, rischiando solo di rovinarla inutilmente. Persino un permesso negato poteva finire “a bestemmie”, profuse con una certa creatività non solo contro Dio e la Vergine Maria, ma pure contro una vasta platea di santi.
Alcune frasi risultano non del tutto chiare e sono probabilmente da riferirsi a detti proverbiali (“… se lasorno furare le spade de la guardia… sape fare tagliare apeze…”), ma il documento illustra comunque la riottosità di alcuni soldati e la dubbia autorità di un caposquadra nell’imporre qualche parvenza di disciplina.

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Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, fasc. 6.

Per che il vostro fedele il Conte de Turpia, capo di squadra de balastreri, he1 deputato ala guardia de la corte.
Primo, perché haveria comandato a Zorzo de Bayvera che voleva che dormisse in corte et che non andasse adormire fora de la corte, et alora il dicto Georgio comenzò a cridare cum il dicto Conte et per quelo se alomenta deli facti suoi.
Donixio2 de Melegnano tolse zoxo una corazina et la misse soto il culo per iocare ale carte et dicto Conte lo represe che non faceva bene; et il dicto Dionixio gli risposte3 che non lo obederìa.
Maza lo hoste balastrere domando licentia al dicto conte de andare acaxa et luy gli rispose che havesse patientia, che non erano anchora doy dì che il capitaneo era andato via; et luy comenzò ad biastemare Dio et la Verginemaria et quanti sancti trovava et dicto Conte non gli disse altro non ma che non gli potete tanto reprendere, che se lasorno furare le spade de la guardia.
Bernardino balestrero, venendo da Parma, tolse uno axino et sape fare tagliare apeze lo dicto Conte et li conpagni.
Et Georgio Albevexio del la Tacha et il Fra de Papia sono informati dele differentie quale sono facte.

1, 2, 3:  Così nel testo

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 01.06.2019; tutti i diritti riservati.
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Sullo scenario bellico del secondo Quattrocento italiano, la parte “del leone” fu senza dubbio giocata dalle grandi condotte di personaggi famosi, contese a peso d’oro dalle Signorie in continuo attrito dopo l’effimera “Pace di Lodi” (1454). Molto più in ombra e quasi relegato ad un impalpabile sottobosco documentario è invece il ruolo dei piccoli drappelli di soldati di ventura, non inquadrati in ampie condotte ma egualmente alla ricerca di un impiego, in continuo movimento da un potente all’altro per inseguire il miraggio di una “paga”.

Il documento oggetto di questo intervento, privo di datazione ma non avaro d’indizi per collocarlo cronologicamente, ha il merito di aprire una finestra su questa storia minuta e quotidiana, lontana dalle fanfare dei celebri condottieri, ma vicina alla vita di tutti i giorni più del fasto delle corti.

Se in un documento precedente (CLICCA QUI) abbiamo visto come a Genova giungessero schioppi da Norimberga, nella stessa città  ritroviamo alcuni schioppettieri tedeschi di Colonia, veterani delle guerre contro gli Svizzeri di Carlo il Temerario e scesi in Italia per inseguire un nuovo ingaggio dopo la morte del Duca nella battaglia di Nancy (5 gennaio 1477). Costoro, a quanto pare per un malinteso sulla gestione delle paghe da parte di un certo “Montenegro”, servitore dei Fieschi e reclutatore per il signore di Piombino, si ritrovarono detenuti in un carcere a Tortona come disertori, quando decisero di lasciare il precedente ingaggio per cercarne uno nuovo a Milano, supplicando gli “illustrissimi principi” milanesi di garantirne il rilascio.

GIOVANNI DI CRISTOFANO GHINI e FRANCESCO D'ANDREA "Battaglia di Poggio Imperiale", 1480 c. Palazzo Pubblico, Siena (Sala del Mappamondo)

Schioppettiere in ricarica, dettaglio tratto dalla “Battaglia di Poggio Imperiale”, affrescata presso il Palazzo Pubblico di Siena (1480 c.)

Per quanto in nessun punto, come abbiamo detto, questa supplica contenga una data di riferimento, la morte di Carlo di Borgogna, qui ricordato come “quondam”, ovvero deceduto, assicura un termine post quem al principio del 1477. Possiamo solo immaginare che nel caos seguito alla disfatta e al disastro delle sue armate, il Vipret, a capo di un pugno di altri schioppettieri, abbia deciso di valicare le Alpi per tentare la fortuna in una delle zone più instabili e rissose, ovvero quella Genova attraversata da feroci faide intestine e sempre pronta ad una sollevazione.

Un indizio, in particolare, dimostra come all’epoca della stesura del documento la stessa Genova fosse ancora sforzesca, essendo soggetta ad un “commissario” chiaramente sottoposto alla volontà ducale. Considerato come la signoria sforzesca sia di fatto cessata con la rivolta di Prospero Adorno tra luglio e agosto del 1478, per non tornare fino all’agosto del 1488, è altamente probabile che il documento dati tra la metà del 1477 e quella del 1478. Il richiamo al servizio presso il Duca di Borgogna, infatti, sembra acquisire un senso nei giorni più prossimi alla sua sconfitta, mentre appare più complesso credere che un gruppo di schioppettieri veterani delle guerre svizzere sia rimasto coeso ed in servizio fino al 1488, quando la stessa “nota di merito” del servizio borgognone, a due lustri di distanza, non avrebbe avuto lo stesso valore. Il plurale impiegato per descrivere le “signorie” milanesi si giustifica con la minore età di Gian Galeazzo Maria Sforza, rimasto fino al 1480 sotto la reggenza della madre Bona di Savoia, per passare quindi sotto quella dello zio Ludovico il Moro, che secondo ogni indizio lo fece avvelenare nel 1494.

Per concludere, dobbiamo osservare come il volgare del documento, sebbene ricco di espressioni latine, risulti nel complesso piuttosto leggibile, nonostante le numerose differenze grafiche col lessico contemporaneo, che sono state qui mantenute in aderenza al testo originale con modici interventi sulla punteggiatura.

ASM231,fasc11-rit

Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature.

Illustrissimi clementissimique Principes. Ritrovandosi li vestri fidelissimi servitori Vipret cum cinqui altri suoy compagni sclopateri alamani de Colono in lacitate de Zenova, tuti prosperosi et expertissimi, fureno ne li servicii del lo illustrissimo quondam Duca de Burgondis contra li Svyceri, tandem dicti Vipret et altri cinqui suoy conpatrui se aconciareno cum Montenigro, existente ali servitii di Fieschi, per andare ad Pomblino ali servicii del signore, ibi prometendoli dare li dinari per due paghe avante trato. Et tenutoli spatio de uno mese non datoli alcuni dinari, et poy datoli una paga per cadauno, non curandosi de servirli sed bramosi de venire ad Milano ad servire, a Vostre Excelencie piacendoli, più volte rechiesteno licentia al dicto Montenigro, atteso che havevano servito per uno mese, videlicet per lo tempo de li dinari havevano havuti per dicta paga; et non possuta havere la licentia, essendo defraudati da luy, tandem se partireno da Zenova sine eius licentia. Et venendo verso Milano, gionti che fureno ad Tertona, dicto Montenigro havendoli mandato dreto uno corzero quale hebbe ricorso dal domino commissario, ibi li ha facto destenire tuti sey, sub pretextu non habiano servito per il tempo de li dinari receuti et esserli fugiti, non volendo propter hoc relassarli sine licentia ducali, che è cossa inhumana et indebita et aliena da ogni equitate et honestate, ne dovendo ser tolerato per Vostre Excelencie, precipue att(eso) sono partiti per venire ad aconciarsi ali Vostri servitii et havere servito per tanto tempo quanto assende la dicta paga receuta de uno mese, ac etiam che non se sariano aconciati cum luy ullo pacto se non li havesse tolto le sue arme et robe.
Pertanto da parte de dicti Vipret et compagni humiliter fi supplicato ale prefate Vostre Signorie, pregandole se dignano expresse commettere et mandare al dicto domino commissario che statim libere et sine aliqua expensa et exceptione voglia relassare de presone tuti dicti detenti prout decet et fi creduto essere de Vostra pia intentione.


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Cronologia essenziale 1481-1492 

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