Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 18.11.2020; tutti i diritti riservati.
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Un’interessante lettera indirizzata al Missaglia da una non specificata autorità (con ogni probabilità Bona di Savoia o Cicco Simonetta), reca una data scritta a matita, “1478”, ma segue purtroppo il destino degli altri documenti costituenti l’unità “Autografi 231” dell’Archivio di Stato di Milano: ovvero, il distacco dal suo registro di appartenenza.

I fatti descritti, tuttavia, sono chiaramente allusivi ad un episodio bellico di un certo rilievo accaduto proprio in quell’anno, quando il 13 agosto le armate milanesi, condotte tra gli altri dal Conte Borella, vennero a battaglia nei dintorni di Busalla con i Genovesi capitanati da Roberto da Sanseverino. Lo scontro si risolse con una disfatta milanese, le cui tracce appaiono bene impresse nella lettera seguente. Oltre che nel morale, infatti, gli uomini d’arme milanesi si trovarono spogliati di una frazione o di tutto il loro equipaggiamento, a ragione del quale venne interpellato il Missaglia. A lui, infatti, si ordinava di rimpiazzare completamente le armature di coloro che le avessero perse e d’integrare quelle lacunose con le parti mancanti. Tutto il necessario avrebbe dovuto essere tratto dall’arsenale di Pavia (dove sappiamo che all’epoca di Galeazzo Maria Sforza erano custoditi armature sufficienti per coprire 500 uomini d’arme) oppure fornito con “ex novo”, qualora la munizione ne fosse stata sprovvista.

Armatura di Roberto da Sanserverino, Conte di Caiazzo (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Armatura di Roberto da Sanseverino (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Oltre alla conferma del ruolo centrale del Ducato nella distribuzione di armature ai soldati militanti sotto la sua bandiera, questa breve lettera regala alcuni spunti interessanti sulla genesi degli insiemi compositi. Non è cosa nuova, infatti, che tutte le armature milanesi giunte sino a noi, ad eccezione della “Galeazzo d’Arco” interamente d’officina Missaglia, siano marchiate con i “signa” riferibili a più botteghe. Molti di questi insiemi sono tuttavia il frutto di ricomposizioni moderne di elementi sparsi, compatibili per epoca e stile (si vedano per esempio quelle “delle Grazie” al Museo Diocesano di Mantova): altri, come la “Federico il Vittorioso” di Vienna, sono invece l’esito di un assemblaggio realizzato ancora in fase d’uso per specifici scopi torneari.

Marchi sulle scarselle dell'armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Marchi sulle scarselle dell’armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Il nostro documento, a ben guardare, dimostra come la genesi di un’armatura composita potesse derivare anche da episodi traumatici, come la perdita di qualche parte o il danneggiamento in battaglia. Le armature milanesi, nelle loro semplici ma elegantissime geometrie apprezzate in tutta Europa, erano agli occhi dei contemporanei prima di tutto dei preziosi “strumenti del mestiere”, che dovevano assolvere alla principale funzione di tutelare il combattente. Le loro forme levigate, prive in genere di specifiche ornamentazioni, potevano all’occorrenza favorire la sostituzione di singole componenti senza che l’armonia dell’insieme, almeno alla distanza, venisse meno.

L’esistenza di grandi quantitativi di protezioni in piastra negli arsenali, ai quali si poteva attingere per ogni evenienza, lascia supporre che la composizione di un’armatura con parti non concepite “ab origine” come insieme organico e realizzato su misura, fosse una prassi molto consueta.

Replica dell'insieme composito conservato presso il Museo Diocesano "F. Gonzaga" di Mantova, catalogato da L. G. Boccia con la sigla B3 (proprietà Andrea Carloni, IMAGO ANTIQUA).

Replica dell’insieme composito B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.), conservato presso il Museo Diocesano “F. Gonzaga” di Mantova (proprietà A. Carloni, IMAGO ANTIQUA).

La ricomposizione moderna di un’armatura con elementi antichi, eterogenei e compatibili, come per Santa Maria delle Grazie a Curtatone, sarebbe dunque un’operazione legittimata dalle antiche esigenze operative di creare nuovi insiemi con parti di diverse forniture e forse anche di differente bottega. Quante armature composite e quante omogenee fossero presenti sui campi di battaglia è oggi difficile (o forse impossibile) da stabilire, ma è tuttavia sicuro che ambedue le soluzioni abbiano convissuto.

In questo senso, si comprenderebbe meglio la prassi milanese di ripetere la marchiature su ogni singola parte della panoplia difensiva, come la “Galeazzo d’Arco” compiutamente dimostra: in tal modo, anche in caso di sostituzioni, la paternità di ogni elemento sarebbe stata dichiarata senza fraintendimenti.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: spallaccio destro

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): spallaccio destro.


A.S.M. Autografi 231.

Antonio Misalie

Dilecte noster. Per remettere le nostre gentedarme che sonno stati spoliati in zenoese, havemo ordinato darli de le armature de la nostra munitione, videlicet armature integre ad quilli ne sonno spoliati in tutto, ed a quilli ne mancha qualche pezo [1] remetterli quella parte gli mancasse. Pertanto volemo che circa questo exequischi quanto per suoi buletini ti commetterano el conte Borella et d. Michele de Batalia, così in dare de le armature integre, como in far conzare quilli pezi gli mancasseno, toliendo ogni cosa dela nostra munitione, excepto quando li pezi che mancarano non fusseno nela nostra munitione daragli de li tuoi et metteragli al nostro cuncto, et nuy te li pagaremo segondo li precii consueti.

[1] Segue lettera depennata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: bracciali con cubitiera armata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): bracciali con cubitiera armata.

Bibliografia sintetica:

– BOCCIA L.G. 1982, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone presso Mantova e l’armatura lombarda del 400, Busto Arsizio.

– MUSSO R. 2001, “El stato nostro de Zenoa”. Aspetti istituzionali della prima dominazione sforzesca su Genova (1464-1478), “Serta Antiqua et Mediaevalia”, V, Società e istituzioni del medioevo ligure, Roma, pp. 199-236.

– SCALINI M. 1996, L’Armeria Trapp di Castel Coira, vol. II, Udine.

– VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria.

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 09.07.2019; tutti i diritti riservati.
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Uno dei rischi del riordino archivistico “per materia” imposto a Milano da Luca Peroni tra fine Settecento e primo Ottocento, fu la dispersione di preziose serie documentarie, dalle quali le carte venivano estratte senza alcun rimando alla posizione originale per essere organizzate più comodamente “per materia”.

Se questo principio semplificò la vita ai ricercatori, i quali si trovarono una messe di materiale suddiviso secondo categorie d’interesse, il danno fu evidente quando molte di queste carte, sottratte al registro o alla filza di pertinenza, furono private del loro contesto e della loro data, restando a “galleggiare” in mezzo ad altri documenti della più diversa provenienza.

E’ questo il caso dell’interessante rapporto di servizio redatto da un caposquadra di balestrieri, un certo “Conte de Turpia” nella seconda metà del XV secolo (datazione desumibile paleograficamente), che si sarebbe rivelato ben più prezioso se inserito nel suo giusto contesto, con una precisa collocazione geografica e cronologica ricavata dalle carte vicine.

Anche così, sebbene menomata del suo vincolo archivistico, questa pagina ci regala tuttavia un raro spaccato della vita quotidiana di una guarnigione, fatta anche di piccole beghe ed insubordinazioni. Colpisce, in particolare, una certa disinvoltura dei sottoposti nel disattendere le indicazioni del superiore, anche quando si fosse trattato di semplici suggerimenti di “buonsenso”, come non mettere “soto il culo” una brigantina giocando a carte, rischiando solo di rovinarla inutilmente. Persino un permesso negato poteva finire “a bestemmie”, profuse con una certa creatività non solo contro Dio e la Vergine Maria, ma pure contro una vasta platea di santi.
Alcune frasi risultano non del tutto chiare e sono probabilmente da riferirsi a detti proverbiali (“… se lasorno furare le spade de la guardia… sape fare tagliare apeze…”), ma il documento illustra comunque la riottosità di alcuni soldati e la dubbia autorità di un caposquadra nell’imporre qualche parvenza di disciplina.

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Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, fasc. 6.

Per che il vostro fedele il Conte de Turpia, capo di squadra de balastreri, he1 deputato ala guardia de la corte.
Primo, perché haveria comandato a Zorzo de Bayvera che voleva che dormisse in corte et che non andasse adormire fora de la corte, et alora il dicto Georgio comenzò a cridare cum il dicto Conte et per quelo se alomenta deli facti suoi.
Donixio2 de Melegnano tolse zoxo una corazina et la misse soto il culo per iocare ale carte et dicto Conte lo represe che non faceva bene; et il dicto Dionixio gli risposte3 che non lo obederìa.
Maza lo hoste balastrere domando licentia al dicto conte de andare acaxa et luy gli rispose che havesse patientia, che non erano anchora doy dì che il capitaneo era andato via; et luy comenzò ad biastemare Dio et la Verginemaria et quanti sancti trovava et dicto Conte non gli disse altro non ma che non gli potete tanto reprendere, che se lasorno furare le spade de la guardia.
Bernardino balestrero, venendo da Parma, tolse uno axino et sape fare tagliare apeze lo dicto Conte et li conpagni.
Et Georgio Albevexio del la Tacha et il Fra de Papia sono informati dele differentie quale sono facte.

1, 2, 3:  Così nel testo

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 20.10.2018; tutti i diritti riservati.
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La rassegna dei documenti sul duello tra Scaramuccia e “il Prete” si conclude con due lettere del 14 e del 23 febbraio 1472, nelle quali il primo rifiuta nettamente l’invito ad un combattimento appiedato.
Non possiamo oggi sapere se lo sdegno dell’uomo d’arme calabrese derivasse da un moto d’orgoglio e “di classe”, considerando più vile il ruolo del fante rispetto a quello del cavaliere, o se invece celasse qualche carenza tecnica nello scontro a piedi. Appare tuttavia chiara una certa “escalation” dei toni quando nella lettera del 14 febbraio si accusa esplicitamente Iacopo di codardìa, giocando su sottili metafore cinofile.
Il fuggire dalla “scolla” deve con ogni probabilità intendersi come una “fuga dal guinzaglio” (il termine “scolla” in alcuni dialetti meridionali indica oggi la cravatta, avendo forse preso questo significato per similitudine al guinzaglio dopo la sua diffusione a partire dal XVII secolo1), dipingendo il “Prete” come un vile desideroso di sottrarsi all’impresa (ipotesi che egli rigetta nella sua risposta del 23). La seconda locuzione denigratoria, ovvero il paragone con un “cane da pagliaio”, viene anch’essa respinta al mittente dal Prete, accampando una ben più marziale ascendenza canina tra i forti alani.

La metafora del “cane da pagliaio”, per indicare un individuo aggressivo a parole, ma dall’indole pavida e infingarda, sta ormai scivolando in desuetudine, ma il suo impiego è regolarmente censito in varie edizioni del Vocabolario dell’Accademia della Crusca. La sua permanenza nel dialetto astigiano, tuttavia, è stata immortalata in una celebre canzone di Paolo Conte (Sijmadicandhapajiee, letteralmente: “siamo dei cani da pagliaio”), più di 500 anni dopo il duello tra Scaramuccia e Iacopo: uno scontro sul cui esito queste lettere purtroppo tacciono, lasciando la nostra curiosità inappagata.

Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature.

Scaramuza de Calabria, havendo ricevuta la tua de XIIII° de questo, data a Pavia, per la quale risponde ala mia de VIIII°, mi pare che si tu et quelli hano scritto per tuo nome ben havessero intexo el scriver mio, non haveresti iudicato chio sia chane da pagliaro, né chio fugia la scolla, perché havendo io facto linvito dhavere afare con ti iustificato dogni raxone, non saria così vile chio volesse desdire quello chio ho dicto, nec etiam retrarmi dal imprexa, ne la quale sono perseverantissimo, né altro desidero che de venire al effecto, sperando in Dio che havendo afare insieme la iustitia debia fare lofficio suo; né mi disfido, immo mi rendo certo che te parirò esser chane allano et non da pagliaro. Et perché et tu et quelli hano scritto per tuo nome possino cognoscere lerrore suo, haveray per copia qui de sotto quanto me hay scritto per le dette tue de 14 de questo, che non sono in cosalcuna aproposito de quanto io te scrissi per le mie de 9, le quale poray rivedere et intenderle meglio. Concludendo io replico che sono contento haver afare con ti acavallo con le nostre arme, et sil Fosso Bergamascho non ti paresse conveniente loco, io mi condurò dove tu voray, che sia loco mezano ale confine del territorio de la Serenissima Signoria de Venexia et del tuo Illustrissimo Signore. Et mandoti questo mio aposta, per lo quale voglieme rispondere de tua intentione; et chome et dove vuoi habiamo afare insieme, certificandoti che si in tempo de octo dì, ricevuta che haveray la presente mia, non mi haveray conclusive risposto, io farò verso ti quello che rechiede el mestieri del arme, et farotene quello honore che merita li pari toi. Nè de questa materia te scriverò più, perché hormai si vogliono fare li effecti et desistere dale parole et dale pratiche. Ex Urgnano, die XXIII februarii 1472.

Iacomo Stefano dicto Prete, famiglio darme del Illustre Bartolomeo Coleone, capitaneo et cetera.

Copia.

Iacomo Stefano dicto Prete, ho intexo quanto per una tua data adi VIIII° del presente tu rispondi ad una mia lettera per la quale haveva acceptato lo invito de combatere con ti ad arme de bataglia, chome rechiede el mestiere nostro, et così io era apparigiato. Ma veduto che non hay voglia de venire al effecto, perché tu scrivi chio debia venire al Fossato Bergamasco apede et che lì debiamo fare ale spadezate et ale zanetate et cetera, dico che essendo mi famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano, el mestier nostro rechiede de far acavallo et non apede, perché io non fui mai fante dapede. Però non mi pare de risponderti altro, et molto mi maraviglio de ti, chessendo mi famiglio darme del prelibato Illustrissimo Signor Duca de Milano et ti homodarme del Magnifico Bartolomeo Coglione, Capitano Generale, debi offerirte de fare apede, et quando tu voray farla apede, io li metterò uno che ti risponderà: et questo non vuol dir altro, salvo che tu fugi la scolla et che sey un can da pagliaro. Ex Papia, die XIIII° februarii 1472.

Scaramuza de Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano.

Sul retro:

Sia data in mano de Scaramuza de Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano.

1 Per la traduzione scolla-cravatta, clicca QUI 

Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 30.07.2018; tutti i diritti riservati.
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==> SEGUE DA QUI – Clicca e leggi l’antefatto (prima missiva) <==

Nella seconda missiva della nostra breve rassegna, terminati i tentativi di composizione pacifica del dissidio, Iacopo (o Giacomo che dir si voglia) depone ogni ulteriore argomento diplomatico e lancia un’aperta sfida a duello da combattersi presso il “Fosso Bergamasco”, antico canale che raccordava Adda, Serio ed Oglio, dal 1427 confine di stato tra Ducato di Milano e Repubblica di Venezia.

Lo scontro, che avrebbe rimesso nelle mani di Dio l’affermazione della verità, nelle intenzioni del “Prete” si sarebbe dovuto svolgere a piedi e a colpi di spada (spadazate) o di giannetta (zanetate); quest’ultima arma inastata simile ad una lancia, ma dal manico sufficientemente breve da permetterne il maneggio in una scherma ravvicinata.

Il testo qui trascritto, oltre che per l’avvincente storia tramandata, riveste un notevole interesse come prototipo di lettera di sfida tra “gentiluomini”, i quali neppure alla vigilia di uno scontro cruento abbandonavano un registro di garbo e seppur fredda cortesia.

Scaramuza di Calabria, ho recevuto una tua lettera data a Papia adi 2 febraio, responsiva ad una mia data a Malpaga adi 24 del passato, per la quale tu me scrivi et affermi volermi provare dala tua persona a la mia quello che tu hay dicto esser vero, cioè chio sia venuto dal canto di la per spione et habia furato doy toy famigli: elche ho acceptato et accepto volentieri et di novo te replico te parti dela verità et menti falsamente per la gola. Ma a fine che questo se habia ad terminare presto, come tu me scrivi, siando tu stato homodarme et io ancora, et mo tu famiglio d’arme del Illustrissimo Signor Duca de Mediolano, et io del Illustrissimo Capitano Generale Bartholomeo Colione de Andegavia, et siando tu povero ne anche mi tropo richo, non mi pare se habiano ad far altre preparatione et gli è il Fosso Bergamasco che serà campo competente. Vientene lì a piede et faremo voray ale spadazate, voray ale zanetate; et quando anche non volia far questo, portaray le tue arme et io portarò le mie. Et mena solum cum ti quatro o sey de quelli famigli del prelibato tuo Illustrissimo Signore et io ne menarò altratanti del mio Illustrissimo Capitano, chi ne bastarano ad servire perché senza gli sia altra gente. Dio che è summo iudice et chi vede ogni cosa dechiarirà chi haverà rasone, o ti o mi. Et per questo mio messo avisane qual dì te vorai trovare sul loco et in que modo voray fare, et così del numero dele persone voray menar cum ti. Ex Malpaga, 9 februarii 1472.

Iacomo Stephano dicto Preyte, famiglio darme del Illustrissimo Capitano Generale Bartholomeo Colione de Andegavia et cetera.

Sul retro (segue immagine):

Sia data in mano di Scaramuza di Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signor Duca de Milano.

L'indirizzo del ricevente apposto sul retro della lettera.

L’indirizzo del ricevente apposto sul retro della lettera.

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Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 05.06.2018; tutti i diritti riservati.
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Un dettaglio talvolta sfuggente agli appassionati di storia è l’eccezionale ricchezza degli archivi italiani, che nelle pieghe delle loro filze e dei registri custodiscono una riserva quasi inesauribile di memorie passate. Proprio tra Trecento e Quattrocento, infatti, la documentazione scritta diventa così ingente da rappresentare una sfida impossibile per il singolo studioso e un fronte in buona parte ancora inesplorato, prodigo di racconti legati alla vita quotidiana nelle sue molteplici sfaccettature.

Uno di questi “piccoli” episodi d’una storia vivacissima, ma troppo secondaria per trovare spazio nei manuali scolastici, è narrato in tre documenti conservati nell’Archivio di Stato di Milano (Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature), che ci tramandano la genesi di un duello combattutosi nel 1472 tra Scaramuza di Calabria, “famiglio d’arme” del Duca di Milano (allora Galeazzo Maria Sforza) e un certo Iacobo (Giacomo) detto “Prete”, famiglio di Bartolomeo Colleoni.
Mentre del secondo personaggio non mi risultano particolari attestazioni, lo Scaramuccia (o “Scaramuccetto”) era invece un uomo d’arme assai noto al suo tempo, reduce di molte battaglie tanto sul fronte dei Milanesi, quanto su quello dei Veneziani. Considerato come nei nostri documenti egli appaia come un veterano, è assai probabile che si tratti dello stesso Scaramuccetto già al soldo di Francesco Sforza nell’ottobre del 1447, opposto ai Veneziani quale caposquadra. Tra 1452 e 1453 la sua fedeltà alla causa sforzesca venne meno e defezionò a favore dei Veneziani, solo per essere catturato nell’agosto del 1453 e condotto alla presenza dello Sforza, che tuttavia gli risparmiò la vita e lo riammise al proprio servizio. Da allora fino al 1480, anno della sua morte, non avrebbe più abbandonato la casata sforzesca, trovandosi più volte opposto sul campo di battaglia alle milizie colleonesche (per le sue vicende, CLICCA QUI).

Il piccolo nucleo di tre documenti che riportano questa vicenda (del cui esito finale purtroppo nulla sappiamo) è una supplica datata al 4 febbraio e rivolta da Scaramuccia a Galeazzo Maria Sforza, oggetto di questo articolo. 
Seguiranno nelle prossime “puntate”, oltre ad una disamina più approfondita del rituale del duello, l’edizione di una missiva indirizzata da Iacopo a Scaramuccia il 9 febbraio dello stesso 1472, in risposta ad una sua lettera di sfida (purtroppo dispersa) del 2 febbraio. La rassegna si concluderà in terza battuta con una seconda missiva del “Prete”, datata al 23 febbraio, in risposta ad un’altra speditagli dall’avversario il 14 febbraio e interamente trascritta a piè di pagina.

In estrema sintesi, pertanto, quello che ci resta sono una supplica dello Scaramuccia, che rievoca la vicenda ne suoi tratti generali, una sua missiva trascritta in copia ed altre due dello Iacopo. Risulta invece dispersa una lettera inviata dallo Scaramuccia il 2 febbraio, a sua volta stilata in risposta ad un’altra del “Prete” spedita il 24 gennaio, anch’essa non pervenuta.

La scansione cronologica del carteggio si può dunque ricostruire come segue:

  • missiva del 24 gennaio scritta da Iacopo a Malpaga, indirizzata a Scaramuccia in Pavia (perduta)

  • missiva del 2 febbraio scritta da Scaramuccia e indirizzata a Iacopo (perduta)

  • supplica 4 febbraio indirizzata da Scaramuccia al Duca di Milano (conservata)

  • missiva del 9 febbraio scritta da Iacopo a Malpaga, indirizzata a Scaramuccia (conservata)

  • missiva del 14 febbraio scritta da Scaramuccia a Pavia, indirizzata a Iacopo (conservata in copia)

  • missiva del 23 febbraio scritta da Iacopo a Urgnano, indirizzata a Scaramuccia in forma di ultimatum a confronto ormai deciso (conservata).

Prima di concedere spazio al documento, relativamente agevole visto il ricorso ad un volgare molto colorito e intelligibile, devo premettere alcuni dettagli metodologici. Nella trascrizione mi sono attenuto il più possibile alla sintassi della supplica, mantenendo legate parole che nell’italiano contemporaneo dovrebbero essere slegate (vedi per esempio “lahabitacione”), mentre ho imposto una punteggiatura moderna per renderla più scorrevole, oltre all’uso delle maiuscole per definire i titoli onorifici spettanti al principe.

Parte iniziale della supplica datata 4 febbraio 1472.

Parte iniziale della supplica datata 4 febbraio 1472.

Mi auguro che questa lettura possa essere per tutti un piacevole “giocho di magatelle et da puti picinini” e faccia apprezzare le vicende di questi uomini d’arme, la cui unica memoria di una vita avventurosa è spesso consegnata a poche, fragili righe vergate sulla carta.

Illustrissimo et excellentissimo Signore, a la Vostra Excelencia expone il vostro fidelissimo servitore et fameglo d’arme Scaramucia de Calabria che Iacobo dicto “Preto” de Villanteno, fameglo del Bartholomeo1 Colione, sotto pretexto et fictione de vollere zugare de balestra, se retrovato a caxa de lahabitacione di esso Scaramuza cum Colla, tunc suo famiglo, et in camera di esso Scaramuza fuy imparlamento cum dicto Colla. Et deinde passati pochi giorni, dicto Colla et Antonio, famigli dil dicto Scaramuza, sono fuziti2 cum certi cavali et altre robbe dil dicto Scaramuza, como fermamente se crede per subornacione, instigacione et simulacione dil dicto Prete, il quale andava vociferando indebitamente che esso Scaramucia era fugito dal dicto Bartolomeo, per laqual cossa il dicto Scaramuzia3 dise al Prete che mentiva per la gulla et che se luy voliva questo impugnare per lo dicto Bartolomeo, che esso Scaramucia combaterebe cum luy. Et luy Prete rispoxe che non, ma dicendo che4 che5 dicto Scaramuza faceva male ad lamentarse del dicto6 Bartolomeo; et luy Scaramuza rispose che Bartolomeo predicto li haveva facto spendere li beni proprii et quali non haveva may guadagnato cum isso Bartolomeo. Et postea Iacobo de Vibexalia, homodarme de Vostra Signoria, etiam7 dixit che Veneciani haveriano decemillia cavali scripti8 et decemillia fante da pede et che bixognando a Bartolomeo fare facti darme cum Vostra Signoria, haverebe tanti9 valenti homini darme chel porebbe fare talle facto de arme che talle crede de vencere che per(…)be10. Et similiter Gulliermo de Vibexalia, di dicto Iacobo fratello, rispoxe che Vostra Signoria ha sua gente darme cossi bene imponto che quando hanno comandamento de cavalchare vano a pede cum li sassi in11 pecto. Et dicto Scaramuza rispoxe che mai non ha vedute12 gente darme de Vostra Signoria andare cum sassi in pecto, ma cavalchare cum le arme et bene impuncto et che Vostra Excelencia haveva zinquecento famigli de arme sufficienti ad resistere a tuta la gente darme de Veneciani. Et dicto Gulliermo rispoxe che dicti vostri famigli erano boni a zogare un13 giocho di magatelle et da puti picinini, villipendendo dicti famigli de Vostra Signoria.

Unde il dicto Scaramuza, fidelissimo servitore di Vostra Signoria, le predicte cosse tute ha voluto significare ad Vostra Excelencia, acio la prelibata Signoria Vostra in le predicte cosse se degna fare quella provixione meglo li piace, ne dicti maldicenti decetero habiano cagione de perseverare in lo maldire.

1472, die IIII° februarii.

Lecta fuit hec supplicacione14 die suprascripta Illustrissimo Principi nostro, presentibus Gulielmo et Iacobo de Vibesalia, armigeris ducalibus.

Note:

1  Segue “Coglione” depennato
2  Segue “de isoldati” depennato
3  Segue “die” depennato
4  Segue parola depennata: “dictg” (lettera finale d’incerta lettura) ed “o” soprascritta all’ultima lettera
5  Così nel testo
6  Segue “capitaneo” depennato
7  Segue “ha dicto” depennato e “de” depennato in sopralinea
8  Così nel testo
9  Segue “ho” depennato
10  Parola lacunosa per la presenza di un foro di filza
11  Segue “peto” depennato
12  “ha vedute” aggiunto in sopralinea
13  Segue “zo” depennato
14  Così nel testo

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Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

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