Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 22.07.2023; tutti i diritti riservati.

Correva l’anno 1474 quando nella Milano sforzesca fu avviata una riforma che costituì una tappa fondamentale per la storia della monetazione cittadina, ma non solo. Infatti, dopo la recente esperienza della “lira Tron” veneziana del 1472, il grossone milanese da 20 soldi rese “concreta” e coniata la lira, che fino a quel momento era stata soltanto un nominale di conto.

Vennero così alla luce i cosiddetti “testoni”, che ritraevano il duca Galeazzo Maria Sforza con eccezionale livello di dettaglio, alla pari della migliore medaglistica del periodo.

Piero del Pollaiolo, Ritratto di Galeazzo Maria Sforza, Galleria Nazionale degli Uffizi (1471; fonte Wikipedia).

Al dritto di questa grande moneta, oltre alla folta chioma del signore, risaltano l’armatura in piastre (sulla parta alta del suo busto è ben visibile lo spallaccio) e il collo fasciato da un gorzarino di maglia, secondo la prassi militare del periodo. Al rovescio compare invece l’antico blasone visconteo, sormontato dal cimiero ducale con il drago alato e accostato da G3′ – ‘M; con i tizzoni e secchie.
Si tratta, beninteso, di una moneta piuttosto massiccia, con un diametro intorno ai 29 millimetri ed un peso di circa 9,78 grammi al titolo di 962/1000, molto elevato per l’epoca, la quale, oltre a celebrare il duca quasi comparandolo alle gloriose figure della Roma imperiale, testimonia egregiamente il dinamismo economico raggiunto dall’Italia nel secondo Quattrocento.

Dritto e rovescio di un testone da 20 soldi di Galeazzo Maria Sforza (1474-1476; collezione privata e foto dell’autore).

Sempre in ambito milanese, la versione più leggera e sottile del testone, del valore di 10 soldi, condivideva il tipo del ritratto ducale con la “sorella maggiore”, ma al rovescio mostrava lo stemma sforzesco affiancato dalle iniziali del duca.

Dritto e rovescio di un mezzo testone da 10 soldi di Galeazzo Maria Sforza (1474-1476; collezione privata e foto dell’autore).

Non è questo il luogo per dibattere circa l’opinione di alcuni studiosi che videro in tali monete lo spartiacque tra monetazione medievale e moderna: tuttavia, l’esperienza milanese fece sicuramente scuola e a breve volgere seguirono Ferrara, il ducato di Savoia e molte altre signorie minori.

Per quanto le monete giacciano perlopiù nascoste nel fondo delle scarselle e dunque non appaiano in scenari ricostruttivi con la stessa evidenza di abiti, armamenti, suppellettile etc., è comunque indiscutibile che anche questi piccoli dischetti metallici possano aggiungere una tessera al più variegato mosaico della rappresentazione del passato. A ben guardare, erano a tutti gli effetti parte integrante della vita quotidiana e plastico riflesso del governo che le aveva prodotte, oltre a preziosi manufatti che dal Rinascimento assorbirono il gusto artistico, tramandandolo fino a noi grazie alla serialità della coniazione.

Dischiudere la scarsella per mostrare al pubblico monete rappresentative dell’epoca ricostruita, può dunque rappresentare uno step ulteriore nella divulgazione storica, specialmente in contesti museali o dove l’interazione col pubblico sia più lunga e ravvicinata, come nei mercati.

Ricostruzioni di monete del tardo XV secolo, impiegate negli eventi didattici di IMAGO ANTIQUA

Per una recente sintesi sulla zecca di Milano, si consiglia la pubblicazione relativa alle monete del medagliere di Vittorio Emanuele III (Bollettino di Numismatica, 43), disponibile on-line QUI

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 20.10.2018; tutti i diritti riservati.
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La rassegna dei documenti sul duello tra Scaramuccia e “il Prete” si conclude con due lettere del 14 e del 23 febbraio 1472, nelle quali il primo rifiuta nettamente l’invito ad un combattimento appiedato.
Non possiamo oggi sapere se lo sdegno dell’uomo d’arme calabrese derivasse da un moto d’orgoglio e “di classe”, considerando più vile il ruolo del fante rispetto a quello del cavaliere, o se invece celasse qualche carenza tecnica nello scontro a piedi. Appare tuttavia chiara una certa “escalation” dei toni quando nella lettera del 14 febbraio si accusa esplicitamente Iacopo di codardìa, giocando su sottili metafore cinofile.
Il fuggire dalla “scolla” deve con ogni probabilità intendersi come una “fuga dal guinzaglio” (il termine “scolla” in alcuni dialetti meridionali indica oggi la cravatta, avendo forse preso questo significato per similitudine al guinzaglio dopo la sua diffusione a partire dal XVII secolo1), dipingendo il “Prete” come un vile desideroso di sottrarsi all’impresa (ipotesi che egli rigetta nella sua risposta del 23). La seconda locuzione denigratoria, ovvero il paragone con un “cane da pagliaio”, viene anch’essa respinta al mittente dal Prete, accampando una ben più marziale ascendenza canina tra i forti alani.

La metafora del “cane da pagliaio”, per indicare un individuo aggressivo a parole, ma dall’indole pavida e infingarda, sta ormai scivolando in desuetudine, ma il suo impiego è regolarmente censito in varie edizioni del Vocabolario dell’Accademia della Crusca. La sua permanenza nel dialetto astigiano, tuttavia, è stata immortalata in una celebre canzone di Paolo Conte (Sijmadicandhapajiee, letteralmente: “siamo dei cani da pagliaio”), più di 500 anni dopo il duello tra Scaramuccia e Iacopo: uno scontro sul cui esito queste lettere purtroppo tacciono, lasciando la nostra curiosità inappagata.

Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature.

Scaramuza de Calabria, havendo ricevuta la tua de XIIII° de questo, data a Pavia, per la quale risponde ala mia de VIIII°, mi pare che si tu et quelli hano scritto per tuo nome ben havessero intexo el scriver mio, non haveresti iudicato chio sia chane da pagliaro, né chio fugia la scolla, perché havendo io facto linvito dhavere afare con ti iustificato dogni raxone, non saria così vile chio volesse desdire quello chio ho dicto, nec etiam retrarmi dal imprexa, ne la quale sono perseverantissimo, né altro desidero che de venire al effecto, sperando in Dio che havendo afare insieme la iustitia debia fare lofficio suo; né mi disfido, immo mi rendo certo che te parirò esser chane allano et non da pagliaro. Et perché et tu et quelli hano scritto per tuo nome possino cognoscere lerrore suo, haveray per copia qui de sotto quanto me hay scritto per le dette tue de 14 de questo, che non sono in cosalcuna aproposito de quanto io te scrissi per le mie de 9, le quale poray rivedere et intenderle meglio. Concludendo io replico che sono contento haver afare con ti acavallo con le nostre arme, et sil Fosso Bergamascho non ti paresse conveniente loco, io mi condurò dove tu voray, che sia loco mezano ale confine del territorio de la Serenissima Signoria de Venexia et del tuo Illustrissimo Signore. Et mandoti questo mio aposta, per lo quale voglieme rispondere de tua intentione; et chome et dove vuoi habiamo afare insieme, certificandoti che si in tempo de octo dì, ricevuta che haveray la presente mia, non mi haveray conclusive risposto, io farò verso ti quello che rechiede el mestieri del arme, et farotene quello honore che merita li pari toi. Nè de questa materia te scriverò più, perché hormai si vogliono fare li effecti et desistere dale parole et dale pratiche. Ex Urgnano, die XXIII februarii 1472.

Iacomo Stefano dicto Prete, famiglio darme del Illustre Bartolomeo Coleone, capitaneo et cetera.

Copia.

Iacomo Stefano dicto Prete, ho intexo quanto per una tua data adi VIIII° del presente tu rispondi ad una mia lettera per la quale haveva acceptato lo invito de combatere con ti ad arme de bataglia, chome rechiede el mestiere nostro, et così io era apparigiato. Ma veduto che non hay voglia de venire al effecto, perché tu scrivi chio debia venire al Fossato Bergamasco apede et che lì debiamo fare ale spadezate et ale zanetate et cetera, dico che essendo mi famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano, el mestier nostro rechiede de far acavallo et non apede, perché io non fui mai fante dapede. Però non mi pare de risponderti altro, et molto mi maraviglio de ti, chessendo mi famiglio darme del prelibato Illustrissimo Signor Duca de Milano et ti homodarme del Magnifico Bartolomeo Coglione, Capitano Generale, debi offerirte de fare apede, et quando tu voray farla apede, io li metterò uno che ti risponderà: et questo non vuol dir altro, salvo che tu fugi la scolla et che sey un can da pagliaro. Ex Papia, die XIIII° februarii 1472.

Scaramuza de Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano.

Sul retro:

Sia data in mano de Scaramuza de Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano.

1 Per la traduzione scolla-cravatta, clicca QUI 

Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 30.07.2018; tutti i diritti riservati.
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Nella seconda missiva della nostra breve rassegna, terminati i tentativi di composizione pacifica del dissidio, Iacopo (o Giacomo che dir si voglia) depone ogni ulteriore argomento diplomatico e lancia un’aperta sfida a duello da combattersi presso il “Fosso Bergamasco”, antico canale che raccordava Adda, Serio ed Oglio, dal 1427 confine di stato tra Ducato di Milano e Repubblica di Venezia.

Lo scontro, che avrebbe rimesso nelle mani di Dio l’affermazione della verità, nelle intenzioni del “Prete” si sarebbe dovuto svolgere a piedi e a colpi di spada (spadazate) o di giannetta (zanetate); quest’ultima arma inastata simile ad una lancia, ma dal manico sufficientemente breve da permetterne il maneggio in una scherma ravvicinata.

Il testo qui trascritto, oltre che per l’avvincente storia tramandata, riveste un notevole interesse come prototipo di lettera di sfida tra “gentiluomini”, i quali neppure alla vigilia di uno scontro cruento abbandonavano un registro di garbo e seppur fredda cortesia.

Scaramuza di Calabria, ho recevuto una tua lettera data a Papia adi 2 febraio, responsiva ad una mia data a Malpaga adi 24 del passato, per la quale tu me scrivi et affermi volermi provare dala tua persona a la mia quello che tu hay dicto esser vero, cioè chio sia venuto dal canto di la per spione et habia furato doy toy famigli: elche ho acceptato et accepto volentieri et di novo te replico te parti dela verità et menti falsamente per la gola. Ma a fine che questo se habia ad terminare presto, come tu me scrivi, siando tu stato homodarme et io ancora, et mo tu famiglio d’arme del Illustrissimo Signor Duca de Mediolano, et io del Illustrissimo Capitano Generale Bartholomeo Colione de Andegavia, et siando tu povero ne anche mi tropo richo, non mi pare se habiano ad far altre preparatione et gli è il Fosso Bergamasco che serà campo competente. Vientene lì a piede et faremo voray ale spadazate, voray ale zanetate; et quando anche non volia far questo, portaray le tue arme et io portarò le mie. Et mena solum cum ti quatro o sey de quelli famigli del prelibato tuo Illustrissimo Signore et io ne menarò altratanti del mio Illustrissimo Capitano, chi ne bastarano ad servire perché senza gli sia altra gente. Dio che è summo iudice et chi vede ogni cosa dechiarirà chi haverà rasone, o ti o mi. Et per questo mio messo avisane qual dì te vorai trovare sul loco et in que modo voray fare, et così del numero dele persone voray menar cum ti. Ex Malpaga, 9 februarii 1472.

Iacomo Stephano dicto Preyte, famiglio darme del Illustrissimo Capitano Generale Bartholomeo Colione de Andegavia et cetera.

Sul retro (segue immagine):

Sia data in mano di Scaramuza di Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signor Duca de Milano.

L'indirizzo del ricevente apposto sul retro della lettera.

L’indirizzo del ricevente apposto sul retro della lettera.

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Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 05.06.2018; tutti i diritti riservati.
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Un dettaglio talvolta sfuggente agli appassionati di storia è l’eccezionale ricchezza degli archivi italiani, che nelle pieghe delle loro filze e dei registri custodiscono una riserva quasi inesauribile di memorie passate. Proprio tra Trecento e Quattrocento, infatti, la documentazione scritta diventa così ingente da rappresentare una sfida impossibile per il singolo studioso e un fronte in buona parte ancora inesplorato, prodigo di racconti legati alla vita quotidiana nelle sue molteplici sfaccettature.

Uno di questi “piccoli” episodi d’una storia vivacissima, ma troppo secondaria per trovare spazio nei manuali scolastici, è narrato in tre documenti conservati nell’Archivio di Stato di Milano (Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature), che ci tramandano la genesi di un duello combattutosi nel 1472 tra Scaramuza di Calabria, “famiglio d’arme” del Duca di Milano (allora Galeazzo Maria Sforza) e un certo Iacobo (Giacomo) detto “Prete”, famiglio di Bartolomeo Colleoni.
Mentre del secondo personaggio non mi risultano particolari attestazioni, lo Scaramuccia (o “Scaramuccetto”) era invece un uomo d’arme assai noto al suo tempo, reduce di molte battaglie tanto sul fronte dei Milanesi, quanto su quello dei Veneziani. Considerato come nei nostri documenti egli appaia come un veterano, è assai probabile che si tratti dello stesso Scaramuccetto già al soldo di Francesco Sforza nell’ottobre del 1447, opposto ai Veneziani quale caposquadra. Tra 1452 e 1453 la sua fedeltà alla causa sforzesca venne meno e defezionò a favore dei Veneziani, solo per essere catturato nell’agosto del 1453 e condotto alla presenza dello Sforza, che tuttavia gli risparmiò la vita e lo riammise al proprio servizio. Da allora fino al 1480, anno della sua morte, non avrebbe più abbandonato la casata sforzesca, trovandosi più volte opposto sul campo di battaglia alle milizie colleonesche (per le sue vicende, CLICCA QUI).

Il piccolo nucleo di tre documenti che riportano questa vicenda (del cui esito finale purtroppo nulla sappiamo) è una supplica datata al 4 febbraio e rivolta da Scaramuccia a Galeazzo Maria Sforza, oggetto di questo articolo. 
Seguiranno nelle prossime “puntate”, oltre ad una disamina più approfondita del rituale del duello, l’edizione di una missiva indirizzata da Iacopo a Scaramuccia il 9 febbraio dello stesso 1472, in risposta ad una sua lettera di sfida (purtroppo dispersa) del 2 febbraio. La rassegna si concluderà in terza battuta con una seconda missiva del “Prete”, datata al 23 febbraio, in risposta ad un’altra speditagli dall’avversario il 14 febbraio e interamente trascritta a piè di pagina.

In estrema sintesi, pertanto, quello che ci resta sono una supplica dello Scaramuccia, che rievoca la vicenda ne suoi tratti generali, una sua missiva trascritta in copia ed altre due dello Iacopo. Risulta invece dispersa una lettera inviata dallo Scaramuccia il 2 febbraio, a sua volta stilata in risposta ad un’altra del “Prete” spedita il 24 gennaio, anch’essa non pervenuta.

La scansione cronologica del carteggio si può dunque ricostruire come segue:

  • missiva del 24 gennaio scritta da Iacopo a Malpaga, indirizzata a Scaramuccia in Pavia (perduta)

  • missiva del 2 febbraio scritta da Scaramuccia e indirizzata a Iacopo (perduta)

  • supplica 4 febbraio indirizzata da Scaramuccia al Duca di Milano (conservata)

  • missiva del 9 febbraio scritta da Iacopo a Malpaga, indirizzata a Scaramuccia (conservata)

  • missiva del 14 febbraio scritta da Scaramuccia a Pavia, indirizzata a Iacopo (conservata in copia)

  • missiva del 23 febbraio scritta da Iacopo a Urgnano, indirizzata a Scaramuccia in forma di ultimatum a confronto ormai deciso (conservata).

Prima di concedere spazio al documento, relativamente agevole visto il ricorso ad un volgare molto colorito e intelligibile, devo premettere alcuni dettagli metodologici. Nella trascrizione mi sono attenuto il più possibile alla sintassi della supplica, mantenendo legate parole che nell’italiano contemporaneo dovrebbero essere slegate (vedi per esempio “lahabitacione”), mentre ho imposto una punteggiatura moderna per renderla più scorrevole, oltre all’uso delle maiuscole per definire i titoli onorifici spettanti al principe.

Parte iniziale della supplica datata 4 febbraio 1472.

Parte iniziale della supplica datata 4 febbraio 1472.

Mi auguro che questa lettura possa essere per tutti un piacevole “giocho di magatelle et da puti picinini” e faccia apprezzare le vicende di questi uomini d’arme, la cui unica memoria di una vita avventurosa è spesso consegnata a poche, fragili righe vergate sulla carta.

Illustrissimo et excellentissimo Signore, a la Vostra Excelencia expone il vostro fidelissimo servitore et fameglo d’arme Scaramucia de Calabria che Iacobo dicto “Preto” de Villanteno, fameglo del Bartholomeo1 Colione, sotto pretexto et fictione de vollere zugare de balestra, se retrovato a caxa de lahabitacione di esso Scaramuza cum Colla, tunc suo famiglo, et in camera di esso Scaramuza fuy imparlamento cum dicto Colla. Et deinde passati pochi giorni, dicto Colla et Antonio, famigli dil dicto Scaramuza, sono fuziti2 cum certi cavali et altre robbe dil dicto Scaramuza, como fermamente se crede per subornacione, instigacione et simulacione dil dicto Prete, il quale andava vociferando indebitamente che esso Scaramucia era fugito dal dicto Bartolomeo, per laqual cossa il dicto Scaramuzia3 dise al Prete che mentiva per la gulla et che se luy voliva questo impugnare per lo dicto Bartolomeo, che esso Scaramucia combaterebe cum luy. Et luy Prete rispoxe che non, ma dicendo che4 che5 dicto Scaramuza faceva male ad lamentarse del dicto6 Bartolomeo; et luy Scaramuza rispose che Bartolomeo predicto li haveva facto spendere li beni proprii et quali non haveva may guadagnato cum isso Bartolomeo. Et postea Iacobo de Vibexalia, homodarme de Vostra Signoria, etiam7 dixit che Veneciani haveriano decemillia cavali scripti8 et decemillia fante da pede et che bixognando a Bartolomeo fare facti darme cum Vostra Signoria, haverebe tanti9 valenti homini darme chel porebbe fare talle facto de arme che talle crede de vencere che per(…)be10. Et similiter Gulliermo de Vibexalia, di dicto Iacobo fratello, rispoxe che Vostra Signoria ha sua gente darme cossi bene imponto che quando hanno comandamento de cavalchare vano a pede cum li sassi in11 pecto. Et dicto Scaramuza rispoxe che mai non ha vedute12 gente darme de Vostra Signoria andare cum sassi in pecto, ma cavalchare cum le arme et bene impuncto et che Vostra Excelencia haveva zinquecento famigli de arme sufficienti ad resistere a tuta la gente darme de Veneciani. Et dicto Gulliermo rispoxe che dicti vostri famigli erano boni a zogare un13 giocho di magatelle et da puti picinini, villipendendo dicti famigli de Vostra Signoria.

Unde il dicto Scaramuza, fidelissimo servitore di Vostra Signoria, le predicte cosse tute ha voluto significare ad Vostra Excelencia, acio la prelibata Signoria Vostra in le predicte cosse se degna fare quella provixione meglo li piace, ne dicti maldicenti decetero habiano cagione de perseverare in lo maldire.

1472, die IIII° februarii.

Lecta fuit hec supplicacione14 die suprascripta Illustrissimo Principi nostro, presentibus Gulielmo et Iacobo de Vibesalia, armigeris ducalibus.

Note:

1  Segue “Coglione” depennato
2  Segue “de isoldati” depennato
3  Segue “die” depennato
4  Segue parola depennata: “dictg” (lettera finale d’incerta lettura) ed “o” soprascritta all’ultima lettera
5  Così nel testo
6  Segue “capitaneo” depennato
7  Segue “ha dicto” depennato e “de” depennato in sopralinea
8  Così nel testo
9  Segue “ho” depennato
10  Parola lacunosa per la presenza di un foro di filza
11  Segue “peto” depennato
12  “ha vedute” aggiunto in sopralinea
13  Segue “zo” depennato
14  Così nel testo

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Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 10.03.2018; tutti i diritti riservati.
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Correva l’anno 1476 e Genova si trovava sotto la signoria milanese, allora esercitata dal Duca Galeazzo Maria Sforza (1466-1476). Era quella una stagione tumultuosa di scontri di fazione, di ribellioni ricorrenti e mutevoli giochi di alleanze, nella quale lo Stato genovese attraversava un periodo di elevata instabilità interna, solo a stento arginata dalla soggezione a Milano.

Entrare nel dettaglio di una storia tanto complessa esula certamente dallo scopo di questo intervento, la cui finalità principale è l’edizione di un’interessantissima missiva inviata allo stesso Galeazzo Maria il 18 settembre 1476 da mastro Pietro di Boemia, “bombardero” di quello stesso Duca ormai giunto al capolinea del proprio governo (sarà infatti assassinato il 26 dicembre dello stesso anno, solo tre mesi dopo la nostra lettera). Il documento, a quanto mi consta ancora inedito e trascritto direttamente dall’originale, apre una finestra di rara bellezza non soltanto sul clima di tesa aggressività politica che allora si respirava in città, ma offre spunti per uno scorcio di “cultura materiale” delle armi da fuoco manesche, testimoniandone oltre ogni ragionevole dubbio la diffusione capillare.

Pietro, il cui appellativo “de Boemia” lo attesta come uno specialista straniero venuto a servire le artiglierie ducali, si trovò ad incontrare un certo “bombardero de Fiandra” (la decisione di mantenerne l’anonimato non è a mio avviso casuale), venuto a Genova a produrre “spingarde e schioppetti” per la somma ragguardevole di 8 ducati al mese. Costui, probabilmente per una forma di complicità tra stranieri e compagni d’osteria, avanzò richiesta di visitare il Castelletto (la fortezza che allora dominava sulla città, fulcro strategico del suo controllo), ricevendo tuttavia da Pietro un diniego per la mancanza di una specifica autorizzazione. Fattasi la discussione più cordiale e forse complice il vino, il nostro anonimo artigiano fiammingo divenne loquace, ammonendo Pietro del pericolo di un’insurrezione imminente. In città, infatti, proseguivano celermente i preparativi per una rivolta contro la signoria milanese (cosa che sarebbe puntualmente successa da lì a poco, nel marzo 1477), con la costruzione di bocche da fuoco nel quartiere del Molo da parte di tre maestri, produttori di bombardelle e spingarde in ferro. Altre due spingarde di bronzo erano state nel frattempo gettate e venivano custodite in casa Spinola, mentre in segreto si munivano le torri cittadine con balestre pesanti “da bancho”, spingarde e bombardelle navali, tutte mirate al Castelletto. Di eccezionale interesse in questo frangente è la menzione di un mercante di Norimberga giunto in città con 300 “chioppetti de bronzo manicati” (ovvero, 300 schioppi in bronzo con le loro calciature), venduti con le relative forme per la fusione delle palle, tutti puntualmente acquistati dai Genovesi. In città, infine, i preparativi per l’insurrezione fervevano anche con la produzione di rotelle, targoni e balestre, a completare il panorama di una popolazione segretamente in armi.

Come anticipato, un documento di questo genere offre un’ampia rosa di spunti per la comprensione della realtà genovese, ben oltre il semplice dato della mal tollerata signoria sforzesca. In prima battuta, infatti, ci mostra come nel settore delle armi da fuoco e della loro gestione si facesse ampio ricorso a professionisti nordici, secondo una tendenza già rivelata dai registri della Classis contra Regem Aragonum (1453-54), contenenti i nominativi dei soldati imbarcati sulla flotta opposta ad Alfonso V d’Aragona. Osserviamo inoltre come a Genova già nel 1476 si fosse insediata una manifattura autonoma di bocche da fuoco, tanto in ferro quanto in bronzo, favorita dall’apporto di maestranze specializzate e itineranti come il nostro anonimo fiammingo.

Ciò naturalmente non escludeva l’importazione di ingenti quantitativi di armi da laboratori di area tedesca: i 300 schioppi in bronzo di Norimberga, andati immediatamente a ruba, rappresentano infatti una partita di proporzioni imponenti e sufficiente ad armare un piccolo esercito, ma soprattutto dimostrano come armi di foggia tedesca potessero circolare in buon numero nella Genova del Quattrocento. Considerando la presenza di fabbriche ormai consolidate anche in Italia, come quella di Gardone (nel 1459 il Senato di Venezia ordinò ai Rettori di Brescia di farvi produrre molte bocche da fuoco, tra le quali 50 schioppetti), è piuttosto plausibile che la scelta di questi prodotti germanici fosse dettata dalla segretezza, agevolata da un trasporto marittimo. Un carico someggiato dall’Oltregiogo direttamente dai luoghi di produzione del bresciano avrebbe infatti dato nell’occhio dei Milanesi ben più di una nave attraccata in porto, suscitando un immediato allarme.

All’epoca del nostro documento, in ogni caso, la manifattura delle armi da fuoco a Norimberga era ormai consolidata: nel 1429, infatti, vi troviamo già attivo un sodalizio di tiratori di schioppo, con un anno di anticipo su un’analoga organizzazione operante ad Augusta, ed è plausibile che questa produzione fosse anche tecnologicamente all’avanguardia, forse più delle coeve manifatture italiane.

Non risulta tuttavia semplice indovinare dalle parole di Pietro di Boemia quale fosse la forma dei 300 schioppi, perché il nostro documento tace al riguardo, limitandosi solo a definirli genericamente di bronzo, “immanicati” e provvisti delle forme (quasi certamente i fondipalle del calibro corretto). All’epoca, comunque, era in corso una transizione dai modelli più arcaici forniti di canne innestate a gorbia sopra un palo opportunamente sagomato, alle canne munite di flange di fissaggio, che venivano appoggiate su una calciatura strutturalmente simile a quelle moderne ed ivi fermate da due spine. Questo sistema più aggiornato permetteva di sparare tenendo la mano sotto la canna, in posizione sicura e al riparo dal surriscaldamento dovuto all’uso, per una più efficace collimazione del bersaglio. Armi di questa tipologia e con canne in bronzo (stando al colore usato per dipingerle) sono già attestabili per via iconografica in anni non lontani dal nostro documento nelle Amtliche Berner Chronik di Diebold Schilling (Bern, Burgerbibliothek, Mss.h.h.I.1; commissionate nel 1474 e miniate tra 1478 e 1483), dove appaiono anche fornite di un probabile sistema “a serpentina”, per avvicinare la miccia di accensione alle polveri senza doverla condurre a mano (Fig. 1).

Fig. 1

Fig. 1

In alcuni degli esemplari riprodotti nelle Cronache di Schilling (non in tutti, perché manca questo dettaglio in numerose tra le molteplici raffigurazioni di schioppo di questo volume; Fig. 2), compare infatti sul calcio una sorta di struttura “a S”, che può essere a mio avviso spiegata solo in questa ottica. La miccia accesa, che alcuni tiratori tengono in mano, doveva essere fissata ad un capo della S, per venire poi accostata ad uno scodellino laterale contenente la polvere dell’innesco.

Fig. 2

Fig. 2

Calciatura di nuovo modello, meccanismo di sparo e scodellino coperto laterale (quest’ultimo d’invenzione più antica, ma scarsamente diffuso fino all’ultimo Quattrocento) erano i tre elementi che segnarono la transizione della forme più arcaiche a gorbia, di origine trecentesca, alle armi del Cinquecento maturo, ormai del tutto perfezionate. La disponibilità dello scodellino in luogo del focone aperto sopra la canna, in particolare, permetteva di trasportare l’arma già carica, senza il rischio che l’innesco si disperdesse dal focone in caso di rotazione o di alzo verticale.

Le tappe di questa transizione non risultano oggi del tutto chiare e l’iconografia coeva ci presenta armi da fuoco manesche diversamente evolute, ma impiegate nel medesimo arco di tempo del documento genovese. Nel celebre Wolfegg Hausbuch, risalente agli anni ’70 del Quattrocento, un gruppo di schioppettieri in marcia trasporta infatti delle armi probabilmente in bronzo e ancora inastate a gorbia su un palo, dall’aspetto molto più arcaico rispetto al Amtliche Berner Chronik (Fig. 3).

Fig. 3

Fig. 3

In ambito italiano, in una miniatura raffigurante Galeazzo Maria Sforza, forse di Cristoforo de Predis e oggi conservata presso la Wallace Collection (ante 1476), un gruppo di schioppettieri milanesi coperti da celate e cervelliere brandisce armi anch’esse di tipologia arcaica, ancora munite di gorbia ma immanicate su un calcio già anatomicamente sagomato (Fig. 4).

Fig. 4

Fig. 4

Nelle miniature di Giovanni da Fano dell’Hesperis, coeve alla precedente ma penalizzate da un minore livello di dettaglio, è impossibile definire con assoluta certezza le caratteristiche degli schioppi, sfuggite nei tratti più minuti al rapido pennello dell’artista. Da un particolare della copia conservata alla Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi sembra tuttavia scorgersi una tipologia “a gorbia” simile a quella delineata nel manoscritto della Wallace (Fig. 5).

Fig. 5

Fig. 5

Per ritrovare uno schioppo montato su una calciatura di stile moderno, dobbiamo infine rivolgerci ad una pittura parietale nella “Sala del Mappamondo” del Palazzo Comunale di Siena, dove Giovanni di Cristoforo Ghini e Francesco d’Andrea immortalarono nei primi anni ’80 del Quattrocento la battaglia di Poggio Imperiale (1479).

La rassegna per anni successivi al nostro potrebbe arricchirsi di ulteriori esempi, che porterebbero tuttavia il discorso troppo lontano dal nucleo originario: la possibile fisionomia dei 300 schioppi citati nel nostro documento. Allo stato attuale delle ricerche, come abbiamo osservato, la forte variabilità delle armi da fuoco portatili negli anni ’70 del Quattrocento suggerirebbe molta prudenza. Nelle migliore delle ipotesi, questi manufatti potevano già presentare caratteristiche evolute come quelle delle Berner Chronik ed avere canne in bronzo dalla forma non troppo dissimile da quella d’uno schioppo oggi nella collezione del Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, datato da catalogo al 1500 circa e già fornito di tutte le caratteristiche di un’arma da fuoco evoluta (calciatura completa, scodellino laterale e sistema di sparo a scatto; Fig. 6).

Fig. 6

Fig. 6

Nel 1476 è tuttavia plausibile che alcune di queste caratteristiche ancora mancassero ed in particolare il meccanismo di scatto a bottone; elemento di forte modernità assente in alcune tra le armi raffigurate nello Zeugbuch Kaiser Maximilians del 1502 (Fig. 7), a differenza dello scodellino laterale, presente in tutte. Nella più elementare delle ipotesi poteva invece trattarsi di semplici canne con gorbia alla culatta, fissate su una calciatura a palo variamente sagomato, come quelle del Wolfegg Hausbuch.

Fig. 7

Fig. 7

Per tentare una risposta più precisa sarebbe necessario scandagliare il fondo notarile dello sterminato Archivio di Stato di Genova, alla ricerca di ulteriori dettagli, con uno sforzo immane e dal successo tutt’altro che scontato.


Archivio di Stato di Milano, Autografi, Fabbriche di armi e armature, 231.

«Domino Duci Mediolanensi.
1476, die XVIII septembris, Gambolate.
Magistro Petro de Boemia, bombardero de la sublimità vostra in Genoa, dice che circa uno mese et mezo, havendo lui provato certi mortari de vostra signoria, uno bombardero de Fiandra quale gli ha dicto essere conducto con Zenoesi per octo Ducati el mese, con le spese per lavorare spingarde et schioppetti, lo menò con si un una hostaria et domandolo sel posseva vedere el Castelletto de dentro. Al quale dicto magistro Petro respose che non era possibile senza licentia et l(itte)re de vostra signoria. Adlhora dicto bombardero de Fiandra li dixe: “fratello, guardate bene non andare troppo per la terra, perché costoro te taglieranno apezo, perché io intendo bene lanimo et dispositione loro et nanzi che sia troppo tempo le cose andaranno per altra via, siche guardati da Zenoesi et fa à mio senno, che non voria che tu che sii valenthomo periculasse; in(de) conzi mortari; anche li altri ne conzano”.
Item dice che uno mercatante todescho ha portato à Zenoa da Norimberga 300 chioppetti de bronzo manichati et con le sue forme, et tutti sonno comprati per Zenoesi, et lui li ha venduti.
Item dice che sonno tri magistri al molo che lavorano spingarde et bombardelle de ferro, et subito finite sonno portate per le case et ascosi.
Item che uno stagnaro ha facto due spingarde de bronzo che le ha viste lui apresso casa Spinola, et che le vidde facendo prova volere comprare bronzo, et similiter li vedde fare molte ballotte de piombo da spingarde et domandandolo che ne voliva fare, gli rispose dicto stagnaro: “al corpo de Dio fra [ndr, così nel testo], le volimo operare uno di”.
Item che per certe torre che mirano al Castelletto sonno misse alchune balestre da bancho, et spingarde et bombardelle da nave et gli foreno messe el di del remore [ndr, così nel testo].
Item fanno fare Zenoesi molti tarconi et rotelle et balestre».

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Replica di schioppo del tardo Quattrocento imbracciata dall’autore dell’articolo, membro IMAGO ANTIQUA

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Dettaglio dello “scodellino” coperto laterale

Bibliografia sintetica:

BOLOGNINI P. (a cura di), Armi antiche a Gardone, “Quaderni del museo”, 1, dicembre 2007.

DURDÍK M., MUDRA M., ŠÁDA M., Armi da fuoco antiche, La Spezia, 1989.

GAIBI A., Armi da fuoco italiane, Busto Arsizio, 1978.

GODOY J. A., Armes a feu, XV-XVII siecle. Collection du Musée d’Art et d’Histoire, Genève, Ginevra, 1993.

MUSSO R., “El stato nostro de Zenoa”. Aspetti istituzionali della prima dominazione sforzesca su Genova (1464-1478), in “Serta antiqua et mediaevalia”, V, Società e istituzioni del medioevo ligure, Roma, 2001, pp. 199-236.

OLGIATI G., Classis contra regem Aragonum (Genova, 1452-54). Organizzazione militare ed economica della spedizione navale contro Napoli, Cagliari, 1990.

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