Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 18.11.2020; tutti i diritti riservati.
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Un’interessante lettera indirizzata al Missaglia da una non specificata autorità (con ogni probabilità Bona di Savoia o Cicco Simonetta), reca una data scritta a matita, “1478”, ma segue purtroppo il destino degli altri documenti costituenti l’unità “Autografi 231” dell’Archivio di Stato di Milano: ovvero, il distacco dal suo registro di appartenenza.

I fatti descritti, tuttavia, sono chiaramente allusivi ad un episodio bellico di un certo rilievo accaduto proprio in quell’anno, quando il 13 agosto le armate milanesi, condotte tra gli altri dal Conte Borella, vennero a battaglia nei dintorni di Busalla con i Genovesi capitanati da Roberto da Sanseverino. Lo scontro si risolse con una disfatta milanese, le cui tracce appaiono bene impresse nella lettera seguente. Oltre che nel morale, infatti, gli uomini d’arme milanesi si trovarono spogliati di una frazione o di tutto il loro equipaggiamento, a ragione del quale venne interpellato il Missaglia. A lui, infatti, si ordinava di rimpiazzare completamente le armature di coloro che le avessero perse e d’integrare quelle lacunose con le parti mancanti. Tutto il necessario avrebbe dovuto essere tratto dall’arsenale di Pavia (dove sappiamo che all’epoca di Galeazzo Maria Sforza erano custoditi armature sufficienti per coprire 500 uomini d’arme) oppure fornito con “ex novo”, qualora la munizione ne fosse stata sprovvista.

Armatura di Roberto da Sanserverino, Conte di Caiazzo (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Armatura di Roberto da Sanseverino (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Oltre alla conferma del ruolo centrale del Ducato nella distribuzione di armature ai soldati militanti sotto la sua bandiera, questa breve lettera regala alcuni spunti interessanti sulla genesi degli insiemi compositi. Non è cosa nuova, infatti, che tutte le armature milanesi giunte sino a noi, ad eccezione della “Galeazzo d’Arco” interamente d’officina Missaglia, siano marchiate con i “signa” riferibili a più botteghe. Molti di questi insiemi sono tuttavia il frutto di ricomposizioni moderne di elementi sparsi, compatibili per epoca e stile (si vedano per esempio quelle “delle Grazie” al Museo Diocesano di Mantova): altri, come la “Federico il Vittorioso” di Vienna, sono invece l’esito di un assemblaggio realizzato ancora in fase d’uso per specifici scopi torneari.

Marchi sulle scarselle dell'armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Marchi sulle scarselle dell’armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Il nostro documento, a ben guardare, dimostra come la genesi di un’armatura composita potesse derivare anche da episodi traumatici, come la perdita di qualche parte o il danneggiamento in battaglia. Le armature milanesi, nelle loro semplici ma elegantissime geometrie apprezzate in tutta Europa, erano agli occhi dei contemporanei prima di tutto dei preziosi “strumenti del mestiere”, che dovevano assolvere alla principale funzione di tutelare il combattente. Le loro forme levigate, prive in genere di specifiche ornamentazioni, potevano all’occorrenza favorire la sostituzione di singole componenti senza che l’armonia dell’insieme, almeno alla distanza, venisse meno.

L’esistenza di grandi quantitativi di protezioni in piastra negli arsenali, ai quali si poteva attingere per ogni evenienza, lascia supporre che la composizione di un’armatura con parti non concepite “ab origine” come insieme organico e realizzato su misura, fosse una prassi molto consueta.

Replica dell'insieme composito conservato presso il Museo Diocesano "F. Gonzaga" di Mantova, catalogato da L. G. Boccia con la sigla B3 (proprietà Andrea Carloni, IMAGO ANTIQUA).

Replica dell’insieme composito B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.), conservato presso il Museo Diocesano “F. Gonzaga” di Mantova (proprietà A. Carloni, IMAGO ANTIQUA).

La ricomposizione moderna di un’armatura con elementi antichi, eterogenei e compatibili, come per Santa Maria delle Grazie a Curtatone, sarebbe dunque un’operazione legittimata dalle antiche esigenze operative di creare nuovi insiemi con parti di diverse forniture e forse anche di differente bottega. Quante armature composite e quante omogenee fossero presenti sui campi di battaglia è oggi difficile (o forse impossibile) da stabilire, ma è tuttavia sicuro che ambedue le soluzioni abbiano convissuto.

In questo senso, si comprenderebbe meglio la prassi milanese di ripetere la marchiature su ogni singola parte della panoplia difensiva, come la “Galeazzo d’Arco” compiutamente dimostra: in tal modo, anche in caso di sostituzioni, la paternità di ogni elemento sarebbe stata dichiarata senza fraintendimenti.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: spallaccio destro

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): spallaccio destro.


A.S.M. Autografi 231.

Antonio Misalie

Dilecte noster. Per remettere le nostre gentedarme che sonno stati spoliati in zenoese, havemo ordinato darli de le armature de la nostra munitione, videlicet armature integre ad quilli ne sonno spoliati in tutto, ed a quilli ne mancha qualche pezo [1] remetterli quella parte gli mancasse. Pertanto volemo che circa questo exequischi quanto per suoi buletini ti commetterano el conte Borella et d. Michele de Batalia, così in dare de le armature integre, como in far conzare quilli pezi gli mancasseno, toliendo ogni cosa dela nostra munitione, excepto quando li pezi che mancarano non fusseno nela nostra munitione daragli de li tuoi et metteragli al nostro cuncto, et nuy te li pagaremo segondo li precii consueti.

[1] Segue lettera depennata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: bracciali con cubitiera armata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): bracciali con cubitiera armata.

Bibliografia sintetica:

– BOCCIA L.G. 1982, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone presso Mantova e l’armatura lombarda del 400, Busto Arsizio.

– MUSSO R. 2001, “El stato nostro de Zenoa”. Aspetti istituzionali della prima dominazione sforzesca su Genova (1464-1478), “Serta Antiqua et Mediaevalia”, V, Società e istituzioni del medioevo ligure, Roma, pp. 199-236.

– SCALINI M. 1996, L’Armeria Trapp di Castel Coira, vol. II, Udine.

– VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria.

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 02.03.2020; tutti i diritti riservati.
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In una delle ricerche d’archivio condotte anni or sono, rimasi affascinato da un breve documento del 2 aprile 1476 che, sebbene in poche righe, descriveva perfettamente il rapporto “difficile” delle società passate con il rischio di una pandemia.

Il trauma della grande peste del 1347-49, a oltre un secolo di distanza, era tutt’altro che sopito e la vigilanza contro l’episodico ripetersi di focolai d’infezione era sempre altissima. Nonostante una totale ignoranza degli agenti patogeni responsabili del contagio, il concetto di trasmissione da uomo ad uomo era chiarissimo e in mancanza di ogni terapia efficace si ricorreva all’unica forma di profilassi ancora oggi adottata: la quarantena e la limitazione degli spostamenti dalle aree di contagio.

Una volta identificate le zone dei principali focolai, l’ufficio di sanità imponeva un bando su ogni spostamento dalle aree a rischio, valido per chiunque, senza la minima distinzione di ceto. Tale bando, una volta diramato, veniva “gridato” pubblicamente dal cintraco (il pubblico banditore) nei luoghi a ciò deputati e costui doveva infine confermarne la lettura, come si evince dall’ultima parte del documento.
Più nel dettaglio, le aree dalle quali venivano interdetti gli spostamenti erano quelle di Diano e di Albenga e le pene minacciate per i contravventori ricadevano non solo sugli autori dell’infrazione, ma anche su coloro che li avessero ospitati; osti, tavernieri o comuni cittadini.

La gravità della sanzione, ovvero la pena capitale, dimostra quanto seriamente venisse presa la questione e quale livello di attenzione si imponesse alla cittadinanza intera. I diffusori di un contagio da aree infette, dopo la proclamazione di un divieto, erano in tutto e per tutto assimilati ai rei di omicidio.

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Archivio di Stato di Genova, A. S. 3507 (Diversorum Comunis Ianue)

Pro officio sanitatis Ianue.
+MCCCCLXXVI die IIa aprilis.
Preconate vos preco comunis et cetera
parte magnifici ac illustris domini ducalis,
ianuensis vicegubernatoris, et spectanti1 officii
sanitatis comunis2 Ianue. Che non sia alcuna
persona de che grado, stato o
condictione se sia chi ossa ne
prexuma andare per ritornare a
lochi infrascripti contaminati
de peste, ne etiam da quelli
venire, socto pena de la vita
et3 ogni altra pena peccuniaria,
in arbitrio del dicto officio. Li qualli
lochi infecti s(on)o questi:
la ripa de Diano
et tute le ville de Albenga.
Item se comanda a tu li hostorani,
tabernari et altre persone
che ne prexumen4 socto la predicta
pena receptarli.
[S.T.] Nicolaus de Credentia, cancellarius.
Die IIIa aprilis
Nicolaus Rasperius, cintracus comunis5, retulit
hodie6 proclamasse in omnibus ut supra in locis
publicis et consuetis.

 

1 così nel testo
2comunis” aggiunto in sopralinea
3 segno abbreviativo sopra “et” frutto di errore dello scrivente
4 così nel testo
5comunis” aggiunto in sopralinea
6hodie” aggiunto prima della linea

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 13.11.2019; tutti i diritti riservati.
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In ambito ricostruttivo e accademico, una vexata quaestio ricorrente è quella della finitura superficiale delle armature: ovvero, se queste venissero effettivamente lucidate “a specchio” o se ci si limitasse ad un trattamento meno radicale, con la permanenza di chiazze e un aspetto meno riflettente.

In un simile campo, è necessario premetterlo, la prudenza è d’obbligo, perché tra tutte le tappe produttive la lucidatura ha lasciato le tracce più labili in assoluto. Mentre le geometrie dei pezzi meglio conservati sono rimaste immutate (coi segni del maglio ancora impressi all’interno delle piastre) e i processi di tempra sono identificabili con precise analisi di laboratorio, la superficie del metallo non ha invece avuto analoga fortuna. Lasciando da parte i manufatti di scavo, logicamente deteriorati dalla giacitura, le stesse armature di arsenale hanno scontato secoli d’esposizione agli agenti atmosferici, con una manutenzione costante che ne ha modificato in maniera più o meno radicale l’aspetto: sicuramente in forma più elusiva rispetto ai manufatti archeologici e perciò quasi più insidiosa.

Quando una piastra si presenta oggi lucida, ma con macchie scure più o meno diffuse, come possiamo dunque capire se tali macchie siano il “fossile” di una corrosione poi rimossa o piuttosto un resto originale di calamina, residuo del processo produttivo? Per chi abbia pratica dei manufatti antichi, la somiglianza di queste tracce risulta evidente e foriera di fraintendimenti.
In questo senso, la migliore e non rara iconografia che ritrae realisticamente la lucidatura delle piastre (per una rassegna, CLICCA QUI), non sembra conservare evidenza di questi eventuali chiazze di calamina, alimentando il sospetto che, almeno nella produzione di livello medio-alto, i residui di lavorazione venissero puntigliosamente epurati o comunque rimossi fino al punto da non essere apprezzabili, se non ad un esame molto ravvicinato.

FRANCESCO PAGANO, Polittico di San Michele, 1492 c., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

FRANCESCO PAGANO, Polittico di San Michele, 1492 c., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli (fonte: Google Art)

Per quanto concerne la Milano del Quattrocento, sappiamo infatti che una schiera di artigiani si dedicava esclusivamente alla “molatura” e alla nettatura delle armature, che venivano loro consegnate dagli armorari in cambio di compensi stabiliti, come dimostrano due accordi stilati il 2 gennaio 1455 e il 31 luglio 1464 rispettivamente tra 20 e 25 magistri et amoratores et traversatores armorum civitatis et ducatus Mediolani, volti appunto a fissare un prezzario comune e condiviso per la loro prestazione professionale. Non si trattava ancora della formazione di un vero e proprio paratico, attestato in alcuni rogiti solo a partire dal 1476, ma piuttosto di alcuni passi ad esso preliminari, che però risultano molto interessanti per comprendere le dinamiche dell’arte.

In particolare, nel 1455 gli aderenti a questa “società” s’impegnavano a rinunciare a qualunque concorrenza sleale, non costruendo nuove traversere e non tenendo più di una traversera per volta, chiudendo persino le porte in faccia agli armaioli morosi con qualche altro sottoscrittore dell’accordo. Si stabiliva quindi un tariffario minimo al quale tutti dovevano attenersi, nella seguente misura:

– per una corazia (qui sicuramente designante un petto-schiena in piastre), XXVI soldi imperiali

– per un paio di arnexia saldarum (difesa per la coscia ed il ginocchio), XX soldi

– per un paio di brazalium saldarum (difese per le braccia in piastra), XI soldi

– per un paio di spalaziarum saldarum (spallacci in piastre), XII soldi

– per un paio di guanti in piastra, V soldi

– per un elmetto, XX soldi

– per una celata con visiera, VII soldi

– per una celata “da cavallo” (incerta la differenza con la precedente), VII soldi

– per una celata ab oculis (forse corrispondente alla tipologia “alla corinzia”), VIII soldi

PEDRO BERRUGUETE, Ritratto di Federico da Montefeltro con Guidobaldo bambino, 1476-1477 c., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

PEDRO BERRUGUETE, Ritratto di Federico da Montefeltro con Guidobaldo bambino, 1476-1477 c., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino (foto di Andrea Carloni – Rimini)

Quello che emerge in filigrana a queste carte, pertanto, è l’esistenza di un nucleo consistente di professionisti, i traversatori, che intervenivano in una fase terminale della produzione delle difese in piastra come imprenditori-artigiani autonomi rispetto agli armorari, in grado di dialogare con loro da una posizione di forza.

Nonostante le qualità meccaniche e le geometrie fondamentali dei pezzi venissero decisi a monte del loro intervento, l’importanza del loro ruolo nella filiera produttiva non deve a mio avviso essere sottovalutata. La loro maestria nel trattare la superficie del metallo sarebbe infatti apparsa evidente al compratore ancor prima delle qualità intrinseche del pezzo, aggiungendo molto all’appeal estetico del prodotto commercializzato.

Per quanto concerne le attrezzature da loro impiegate nel “mestiere”, sappiamo come già nella prima metà del Quattrocento a Milano si impiegassero mulini idraulici collegati a mole, per una nettatura ben più rapida della tradizionale pulizia manuale su panca, tramandata in numerose miniature del “Mendelschen Hausbuch” di Norimberga (segue immagine) e probabilmente mai scomparsa del tutto.

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 17 recto (Mendel I), 1425c

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 17 recto, Mendel I, 1425c (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

In una fase di grave penuria di farina, una grida della Repubblica Ambrosiana del 14 maggio 1447 imponeva infatti che entro otto giorni e per quattro miglia intorno alla città si levassero dalle traversere tutte le mole impiegate per le armi o i magli per la carta, adottando quelle atte alla macinazione del grano: segno inequivocabile di un processo meccanizzato già a quella data, in apparente anticipo rispetto all’area tedesca; la prima miniatura dell’Hausbuch che rimandi all’uso di mole idrauliche risale al 1523 (segue immagine).

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 138 recto (Mendel I), 1523

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 138 recto, Mendel I, 1523 (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

Non è dato purtroppo di sapere se alla fase di molatura meccanica seguisse un ultimo intervento manuale “di fino”, perché a quanto pare il “traversatore” si occupava non solo delle fasi precoci della pulitura, con la rimozione del nero di forgia, ma anche della manutenzione dei pezzi già finiti, che richiedeva un approccio meno energico rispetto alla nettatura iniziale. Tra le materie accessorie impiegate nella lavorazione delle armature dobbiamo infatti ricordare lo smeriglio, pesto buono e finissimo di Milano “che tagli bene” per lucidare; smeriglio che da Milano veniva esportato e che la bottega avignonese di Francesco di Marco Datini tra fine Trecento e inizio Quattrocento vendeva anche a traversatori e maestri armaioli locali e della regione avignonese. E’ dunque verosimile (pur restando nel campo delle ipotesi) che la prima sgrossatura venisse realizzata con una o più mole di grana differente, per completare l’opera con una smerigliatura manuale.

L’utilizzo dello stesso lemma “traversare” anche per lavori di semplice manutenzione, eseguiti verosimilmente a smeriglio, è comunque ben chiaro in una lettera inviata da Antonio Missaglia al Duca di Milano il 15 gennaio 1474, nella quale rispondeva agli ordini di Galeazzo Maria circa la munizione del castello di Pavia, ove si conservavano almeno 500 armature da uomo d’arme e molte corazzine:

«…Cum grande devotione ho recevuto le vostre littere de di XIIII° del presente, per la quale vostra signoria me scrive ch’io venga a Pavia cum lingenierii necessarii, per che vostra signoria se delibera chel se faci la traversera per tenere polite larme de la vostra munitione. Unde aviso vostra signoria che ho trovato el magistro de la traversera amalato in una gamba per modo chel dice de presente non poter venire, nec altri magistri da traversera non se trova in questa parte…».

La connessione tra la pulizia delle armature e la “traversatura” di pezzi già finiti e depositati nell’arsenale è qui molto evidente, come appare anche del tutto chiara la volontà di preservare immacolata la munizione ducale. L’enfasi sul mantenimento estetico delle armature, d’altro canto, emerge anche in una precedente missiva del 29 novembre 1472, dove si legge con quanta sollecitudine si operasse perché la ruggine non rischiasse di “macchiare” (maculare) le armature:

«….In questi di passati jo andai a Pavia per vedere se a quello fondicho novo era datto principio de fornirlo secundo se richiede per conservacione de le armature che se hanno a repponere dentro, che serano armature cinquecento da battagla. Et conferendo cum el conte Zoanno, non trovandoli essere datto principio alcuno, me respose che aspectava certa risposta da Iacobo Alphero, et havita farebe tale spazamento in fornire dicto fondicho et quello bissogna per la torre, che vestra celsitudine remanerebe satisfacta. Al presente, essendo venuto qui a Mediolano et deliberando de andare a vedere se alcuno principio era facto per repparare, che tanto digna monitione non se venisse a maculare, ho inteso como el dicto conte Zohanne ha avuto el modo da vestra excelentia de fare le provisione oportune, si de lo fondicho novo como de la torre, secondo lo disegno facto per lo inzegnero, che stato la per dicta ragione cum Antonio del Missalia…».

Lo stesso Missaglia, dunque, era stato chiamato in veste di tecnico per adottare tutti i provvedimenti necessari alla conservazione di un arsenale prezioso non soltanto sul campo di battaglia, ma parimenti per il prestigio del Ducato: perché una munizione così degna “non venisse a maculare”, con sgradite chiazze di ruggine.

Un dettaglio raro ed inconsueto circa la traversatura è infine tramandato da un esempio rarissimo di superficie originale rimasta chiaramente intoccata per oltre 5 secoli, ovvero una porzione di elmetto da uomo d’arme facente parte del complesso delle Grazie di Curtatone (elmetto B4). Come racconta il Boccia, una volta rimosso il frontale per l’intervento conservativo, è infatti emersa sotto la piastra una sezione non ossidata, che ancora conservava l’originale finitura scintillante (segue immagine).

Tratto da: G. L. BOCCIA, "Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l'armatura lombarda del '400", Bramante Editrice, Busto Arsizio, 1982 (tav. XX)

Tratto da: G. L. BOCCIA, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l’armatura lombarda del ‘400, Bramante Editrice, Busto Arsizio, 1982 (tav. XX)

Oltre a confortare l’accuratezza della migliore iconografia in merito ad una finitura “a specchio”, questo dettaglio dimostra inoltre come il traversatore operasse su pezzi smontati e il riassemblaggio finale fosse a carico dell’armaiolo, che li riprendeva in consegna dopo il trattamento.

In estrema sintesi, tornando alla vexata quaestio iniziale, iconografia e tracce materiali sembrano convergere sull’ipotesi che le armature milanesi del Quattrocento ricevessero una lucidatura a specchio, eseguita da un gruppo di artigiani specializzati proprio in questo step specifico della produzione armiera e non dagli armorari. Se questa venisse applicata all’intera gamma di prodotti o se piuttosto si limitasse a quelli di maggior pregio, resta tuttavia un quesito ancora aperto.

L’attenzione con la quale si operava perché la munizione ducale non si macchiasse e per mantenerla in buone condizioni estetiche, dimostrerebbe inoltre come tali macchie non fossero affatto viste come un blando inestetismo, ma piuttosto come un difetto da esorcizzare con ogni cura. Ben poco plausibile, pertanto, che gli armaioli milanesi accettassero di commercializzare prodotti con palesi segni esterni di calamina (per l’interno delle piastre, ovviamente, non esisteva questa cura), i quali ne avrebbero diminuito il pregio agli occhi dell’acquirente. Mentre le leggere asimmetrie di ogni manufatto antico non venivano percepite come fattore invalidante (sono ancora oggi riscontrabili anche sui pezzi di maggior pregio), le macchie di ruggine o i residui di lavorazione sarebbero invece apparsi solo come “macule” da consegnare alle sollecite cure di un traversatore e forse tollerate soltanto nella produzione più corrente…ma quella dei pezzi “da munizione” è tutta un’altra storia.

Per i dettagli bibliografici di questo contributo, che ne rappresenta una sintesi ragionata, si veda VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria (CLICCA QUI).

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 09.07.2019; tutti i diritti riservati.
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Uno dei rischi del riordino archivistico “per materia” imposto a Milano da Luca Peroni tra fine Settecento e primo Ottocento, fu la dispersione di preziose serie documentarie, dalle quali le carte venivano estratte senza alcun rimando alla posizione originale per essere organizzate più comodamente “per materia”.

Se questo principio semplificò la vita ai ricercatori, i quali si trovarono una messe di materiale suddiviso secondo categorie d’interesse, il danno fu evidente quando molte di queste carte, sottratte al registro o alla filza di pertinenza, furono private del loro contesto e della loro data, restando a “galleggiare” in mezzo ad altri documenti della più diversa provenienza.

E’ questo il caso dell’interessante rapporto di servizio redatto da un caposquadra di balestrieri, un certo “Conte de Turpia” nella seconda metà del XV secolo (datazione desumibile paleograficamente), che si sarebbe rivelato ben più prezioso se inserito nel suo giusto contesto, con una precisa collocazione geografica e cronologica ricavata dalle carte vicine.

Anche così, sebbene menomata del suo vincolo archivistico, questa pagina ci regala tuttavia un raro spaccato della vita quotidiana di una guarnigione, fatta anche di piccole beghe ed insubordinazioni. Colpisce, in particolare, una certa disinvoltura dei sottoposti nel disattendere le indicazioni del superiore, anche quando si fosse trattato di semplici suggerimenti di “buonsenso”, come non mettere “soto il culo” una brigantina giocando a carte, rischiando solo di rovinarla inutilmente. Persino un permesso negato poteva finire “a bestemmie”, profuse con una certa creatività non solo contro Dio e la Vergine Maria, ma pure contro una vasta platea di santi.
Alcune frasi risultano non del tutto chiare e sono probabilmente da riferirsi a detti proverbiali (“… se lasorno furare le spade de la guardia… sape fare tagliare apeze…”), ma il documento illustra comunque la riottosità di alcuni soldati e la dubbia autorità di un caposquadra nell’imporre qualche parvenza di disciplina.

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Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, fasc. 6.

Per che il vostro fedele il Conte de Turpia, capo di squadra de balastreri, he1 deputato ala guardia de la corte.
Primo, perché haveria comandato a Zorzo de Bayvera che voleva che dormisse in corte et che non andasse adormire fora de la corte, et alora il dicto Georgio comenzò a cridare cum il dicto Conte et per quelo se alomenta deli facti suoi.
Donixio2 de Melegnano tolse zoxo una corazina et la misse soto il culo per iocare ale carte et dicto Conte lo represe che non faceva bene; et il dicto Dionixio gli risposte3 che non lo obederìa.
Maza lo hoste balastrere domando licentia al dicto conte de andare acaxa et luy gli rispose che havesse patientia, che non erano anchora doy dì che il capitaneo era andato via; et luy comenzò ad biastemare Dio et la Verginemaria et quanti sancti trovava et dicto Conte non gli disse altro non ma che non gli potete tanto reprendere, che se lasorno furare le spade de la guardia.
Bernardino balestrero, venendo da Parma, tolse uno axino et sape fare tagliare apeze lo dicto Conte et li conpagni.
Et Georgio Albevexio del la Tacha et il Fra de Papia sono informati dele differentie quale sono facte.

1, 2, 3:  Così nel testo

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 01.06.2019; tutti i diritti riservati.
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Sullo scenario bellico del secondo Quattrocento italiano, la parte “del leone” fu senza dubbio giocata dalle grandi condotte di personaggi famosi, contese a peso d’oro dalle Signorie in continuo attrito dopo l’effimera “Pace di Lodi” (1454). Molto più in ombra e quasi relegato ad un impalpabile sottobosco documentario è invece il ruolo dei piccoli drappelli di soldati di ventura, non inquadrati in ampie condotte ma egualmente alla ricerca di un impiego, in continuo movimento da un potente all’altro per inseguire il miraggio di una “paga”.

Il documento oggetto di questo intervento, privo di datazione ma non avaro d’indizi per collocarlo cronologicamente, ha il merito di aprire una finestra su questa storia minuta e quotidiana, lontana dalle fanfare dei celebri condottieri, ma vicina alla vita di tutti i giorni più del fasto delle corti.

Se in un documento precedente (CLICCA QUI) abbiamo visto come a Genova giungessero schioppi da Norimberga, nella stessa città  ritroviamo alcuni schioppettieri tedeschi di Colonia, veterani delle guerre contro gli Svizzeri di Carlo il Temerario e scesi in Italia per inseguire un nuovo ingaggio dopo la morte del Duca nella battaglia di Nancy (5 gennaio 1477). Costoro, a quanto pare per un malinteso sulla gestione delle paghe da parte di un certo “Montenegro”, servitore dei Fieschi e reclutatore per il signore di Piombino, si ritrovarono detenuti in un carcere a Tortona come disertori, quando decisero di lasciare il precedente ingaggio per cercarne uno nuovo a Milano, supplicando gli “illustrissimi principi” milanesi di garantirne il rilascio.

GIOVANNI DI CRISTOFANO GHINI e FRANCESCO D'ANDREA "Battaglia di Poggio Imperiale", 1480 c. Palazzo Pubblico, Siena (Sala del Mappamondo)

Schioppettiere in ricarica, dettaglio tratto dalla “Battaglia di Poggio Imperiale”, affrescata presso il Palazzo Pubblico di Siena (1480 c.)

Per quanto in nessun punto, come abbiamo detto, questa supplica contenga una data di riferimento, la morte di Carlo di Borgogna, qui ricordato come “quondam”, ovvero deceduto, assicura un termine post quem al principio del 1477. Possiamo solo immaginare che nel caos seguito alla disfatta e al disastro delle sue armate, il Vipret, a capo di un pugno di altri schioppettieri, abbia deciso di valicare le Alpi per tentare la fortuna in una delle zone più instabili e rissose, ovvero quella Genova attraversata da feroci faide intestine e sempre pronta ad una sollevazione.

Un indizio, in particolare, dimostra come all’epoca della stesura del documento la stessa Genova fosse ancora sforzesca, essendo soggetta ad un “commissario” chiaramente sottoposto alla volontà ducale. Considerato come la signoria sforzesca sia di fatto cessata con la rivolta di Prospero Adorno tra luglio e agosto del 1478, per non tornare fino all’agosto del 1488, è altamente probabile che il documento dati tra la metà del 1477 e quella del 1478. Il richiamo al servizio presso il Duca di Borgogna, infatti, sembra acquisire un senso nei giorni più prossimi alla sua sconfitta, mentre appare più complesso credere che un gruppo di schioppettieri veterani delle guerre svizzere sia rimasto coeso ed in servizio fino al 1488, quando la stessa “nota di merito” del servizio borgognone, a due lustri di distanza, non avrebbe avuto lo stesso valore. Il plurale impiegato per descrivere le “signorie” milanesi si giustifica con la minore età di Gian Galeazzo Maria Sforza, rimasto fino al 1480 sotto la reggenza della madre Bona di Savoia, per passare quindi sotto quella dello zio Ludovico il Moro, che secondo ogni indizio lo fece avvelenare nel 1494.

Per concludere, dobbiamo osservare come il volgare del documento, sebbene ricco di espressioni latine, risulti nel complesso piuttosto leggibile, nonostante le numerose differenze grafiche col lessico contemporaneo, che sono state qui mantenute in aderenza al testo originale con modici interventi sulla punteggiatura.

ASM231,fasc11-rit

Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature.

Illustrissimi clementissimique Principes. Ritrovandosi li vestri fidelissimi servitori Vipret cum cinqui altri suoy compagni sclopateri alamani de Colono in lacitate de Zenova, tuti prosperosi et expertissimi, fureno ne li servicii del lo illustrissimo quondam Duca de Burgondis contra li Svyceri, tandem dicti Vipret et altri cinqui suoy conpatrui se aconciareno cum Montenigro, existente ali servitii di Fieschi, per andare ad Pomblino ali servicii del signore, ibi prometendoli dare li dinari per due paghe avante trato. Et tenutoli spatio de uno mese non datoli alcuni dinari, et poy datoli una paga per cadauno, non curandosi de servirli sed bramosi de venire ad Milano ad servire, a Vostre Excelencie piacendoli, più volte rechiesteno licentia al dicto Montenigro, atteso che havevano servito per uno mese, videlicet per lo tempo de li dinari havevano havuti per dicta paga; et non possuta havere la licentia, essendo defraudati da luy, tandem se partireno da Zenova sine eius licentia. Et venendo verso Milano, gionti che fureno ad Tertona, dicto Montenigro havendoli mandato dreto uno corzero quale hebbe ricorso dal domino commissario, ibi li ha facto destenire tuti sey, sub pretextu non habiano servito per il tempo de li dinari receuti et esserli fugiti, non volendo propter hoc relassarli sine licentia ducali, che è cossa inhumana et indebita et aliena da ogni equitate et honestate, ne dovendo ser tolerato per Vostre Excelencie, precipue att(eso) sono partiti per venire ad aconciarsi ali Vostri servitii et havere servito per tanto tempo quanto assende la dicta paga receuta de uno mese, ac etiam che non se sariano aconciati cum luy ullo pacto se non li havesse tolto le sue arme et robe.
Pertanto da parte de dicti Vipret et compagni humiliter fi supplicato ale prefate Vostre Signorie, pregandole se dignano expresse commettere et mandare al dicto domino commissario che statim libere et sine aliqua expensa et exceptione voglia relassare de presone tuti dicti detenti prout decet et fi creduto essere de Vostra pia intentione.


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Cronologia essenziale 1481-1492 

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 20.10.2018; tutti i diritti riservati.
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La rassegna dei documenti sul duello tra Scaramuccia e “il Prete” si conclude con due lettere del 14 e del 23 febbraio 1472, nelle quali il primo rifiuta nettamente l’invito ad un combattimento appiedato.
Non possiamo oggi sapere se lo sdegno dell’uomo d’arme calabrese derivasse da un moto d’orgoglio e “di classe”, considerando più vile il ruolo del fante rispetto a quello del cavaliere, o se invece celasse qualche carenza tecnica nello scontro a piedi. Appare tuttavia chiara una certa “escalation” dei toni quando nella lettera del 14 febbraio si accusa esplicitamente Iacopo di codardìa, giocando su sottili metafore cinofile.
Il fuggire dalla “scolla” deve con ogni probabilità intendersi come una “fuga dal guinzaglio” (il termine “scolla” in alcuni dialetti meridionali indica oggi la cravatta, avendo forse preso questo significato per similitudine al guinzaglio dopo la sua diffusione a partire dal XVII secolo1), dipingendo il “Prete” come un vile desideroso di sottrarsi all’impresa (ipotesi che egli rigetta nella sua risposta del 23). La seconda locuzione denigratoria, ovvero il paragone con un “cane da pagliaio”, viene anch’essa respinta al mittente dal Prete, accampando una ben più marziale ascendenza canina tra i forti alani.

La metafora del “cane da pagliaio”, per indicare un individuo aggressivo a parole, ma dall’indole pavida e infingarda, sta ormai scivolando in desuetudine, ma il suo impiego è regolarmente censito in varie edizioni del Vocabolario dell’Accademia della Crusca. La sua permanenza nel dialetto astigiano, tuttavia, è stata immortalata in una celebre canzone di Paolo Conte (Sijmadicandhapajiee, letteralmente: “siamo dei cani da pagliaio”), più di 500 anni dopo il duello tra Scaramuccia e Iacopo: uno scontro sul cui esito queste lettere purtroppo tacciono, lasciando la nostra curiosità inappagata.

Archivio di Stato di Milano, Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature.

Scaramuza de Calabria, havendo ricevuta la tua de XIIII° de questo, data a Pavia, per la quale risponde ala mia de VIIII°, mi pare che si tu et quelli hano scritto per tuo nome ben havessero intexo el scriver mio, non haveresti iudicato chio sia chane da pagliaro, né chio fugia la scolla, perché havendo io facto linvito dhavere afare con ti iustificato dogni raxone, non saria così vile chio volesse desdire quello chio ho dicto, nec etiam retrarmi dal imprexa, ne la quale sono perseverantissimo, né altro desidero che de venire al effecto, sperando in Dio che havendo afare insieme la iustitia debia fare lofficio suo; né mi disfido, immo mi rendo certo che te parirò esser chane allano et non da pagliaro. Et perché et tu et quelli hano scritto per tuo nome possino cognoscere lerrore suo, haveray per copia qui de sotto quanto me hay scritto per le dette tue de 14 de questo, che non sono in cosalcuna aproposito de quanto io te scrissi per le mie de 9, le quale poray rivedere et intenderle meglio. Concludendo io replico che sono contento haver afare con ti acavallo con le nostre arme, et sil Fosso Bergamascho non ti paresse conveniente loco, io mi condurò dove tu voray, che sia loco mezano ale confine del territorio de la Serenissima Signoria de Venexia et del tuo Illustrissimo Signore. Et mandoti questo mio aposta, per lo quale voglieme rispondere de tua intentione; et chome et dove vuoi habiamo afare insieme, certificandoti che si in tempo de octo dì, ricevuta che haveray la presente mia, non mi haveray conclusive risposto, io farò verso ti quello che rechiede el mestieri del arme, et farotene quello honore che merita li pari toi. Nè de questa materia te scriverò più, perché hormai si vogliono fare li effecti et desistere dale parole et dale pratiche. Ex Urgnano, die XXIII februarii 1472.

Iacomo Stefano dicto Prete, famiglio darme del Illustre Bartolomeo Coleone, capitaneo et cetera.

Copia.

Iacomo Stefano dicto Prete, ho intexo quanto per una tua data adi VIIII° del presente tu rispondi ad una mia lettera per la quale haveva acceptato lo invito de combatere con ti ad arme de bataglia, chome rechiede el mestiere nostro, et così io era apparigiato. Ma veduto che non hay voglia de venire al effecto, perché tu scrivi chio debia venire al Fossato Bergamasco apede et che lì debiamo fare ale spadezate et ale zanetate et cetera, dico che essendo mi famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano, el mestier nostro rechiede de far acavallo et non apede, perché io non fui mai fante dapede. Però non mi pare de risponderti altro, et molto mi maraviglio de ti, chessendo mi famiglio darme del prelibato Illustrissimo Signor Duca de Milano et ti homodarme del Magnifico Bartolomeo Coglione, Capitano Generale, debi offerirte de fare apede, et quando tu voray farla apede, io li metterò uno che ti risponderà: et questo non vuol dir altro, salvo che tu fugi la scolla et che sey un can da pagliaro. Ex Papia, die XIIII° februarii 1472.

Scaramuza de Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano.

Sul retro:

Sia data in mano de Scaramuza de Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signore Duca de Milano.

1 Per la traduzione scolla-cravatta, clicca QUI 

Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 30.07.2018; tutti i diritti riservati.
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Nella seconda missiva della nostra breve rassegna, terminati i tentativi di composizione pacifica del dissidio, Iacopo (o Giacomo che dir si voglia) depone ogni ulteriore argomento diplomatico e lancia un’aperta sfida a duello da combattersi presso il “Fosso Bergamasco”, antico canale che raccordava Adda, Serio ed Oglio, dal 1427 confine di stato tra Ducato di Milano e Repubblica di Venezia.

Lo scontro, che avrebbe rimesso nelle mani di Dio l’affermazione della verità, nelle intenzioni del “Prete” si sarebbe dovuto svolgere a piedi e a colpi di spada (spadazate) o di giannetta (zanetate); quest’ultima arma inastata simile ad una lancia, ma dal manico sufficientemente breve da permetterne il maneggio in una scherma ravvicinata.

Il testo qui trascritto, oltre che per l’avvincente storia tramandata, riveste un notevole interesse come prototipo di lettera di sfida tra “gentiluomini”, i quali neppure alla vigilia di uno scontro cruento abbandonavano un registro di garbo e seppur fredda cortesia.

Scaramuza di Calabria, ho recevuto una tua lettera data a Papia adi 2 febraio, responsiva ad una mia data a Malpaga adi 24 del passato, per la quale tu me scrivi et affermi volermi provare dala tua persona a la mia quello che tu hay dicto esser vero, cioè chio sia venuto dal canto di la per spione et habia furato doy toy famigli: elche ho acceptato et accepto volentieri et di novo te replico te parti dela verità et menti falsamente per la gola. Ma a fine che questo se habia ad terminare presto, come tu me scrivi, siando tu stato homodarme et io ancora, et mo tu famiglio d’arme del Illustrissimo Signor Duca de Mediolano, et io del Illustrissimo Capitano Generale Bartholomeo Colione de Andegavia, et siando tu povero ne anche mi tropo richo, non mi pare se habiano ad far altre preparatione et gli è il Fosso Bergamasco che serà campo competente. Vientene lì a piede et faremo voray ale spadazate, voray ale zanetate; et quando anche non volia far questo, portaray le tue arme et io portarò le mie. Et mena solum cum ti quatro o sey de quelli famigli del prelibato tuo Illustrissimo Signore et io ne menarò altratanti del mio Illustrissimo Capitano, chi ne bastarano ad servire perché senza gli sia altra gente. Dio che è summo iudice et chi vede ogni cosa dechiarirà chi haverà rasone, o ti o mi. Et per questo mio messo avisane qual dì te vorai trovare sul loco et in que modo voray fare, et così del numero dele persone voray menar cum ti. Ex Malpaga, 9 februarii 1472.

Iacomo Stephano dicto Preyte, famiglio darme del Illustrissimo Capitano Generale Bartholomeo Colione de Andegavia et cetera.

Sul retro (segue immagine):

Sia data in mano di Scaramuza di Calabria, famiglio darme del Illustrissimo Signor Duca de Milano.

L'indirizzo del ricevente apposto sul retro della lettera.

L’indirizzo del ricevente apposto sul retro della lettera.

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Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 05.06.2018; tutti i diritti riservati.
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Un dettaglio talvolta sfuggente agli appassionati di storia è l’eccezionale ricchezza degli archivi italiani, che nelle pieghe delle loro filze e dei registri custodiscono una riserva quasi inesauribile di memorie passate. Proprio tra Trecento e Quattrocento, infatti, la documentazione scritta diventa così ingente da rappresentare una sfida impossibile per il singolo studioso e un fronte in buona parte ancora inesplorato, prodigo di racconti legati alla vita quotidiana nelle sue molteplici sfaccettature.

Uno di questi “piccoli” episodi d’una storia vivacissima, ma troppo secondaria per trovare spazio nei manuali scolastici, è narrato in tre documenti conservati nell’Archivio di Stato di Milano (Autografi 231, Fabbriche di Armi ed Armature), che ci tramandano la genesi di un duello combattutosi nel 1472 tra Scaramuza di Calabria, “famiglio d’arme” del Duca di Milano (allora Galeazzo Maria Sforza) e un certo Iacobo (Giacomo) detto “Prete”, famiglio di Bartolomeo Colleoni.
Mentre del secondo personaggio non mi risultano particolari attestazioni, lo Scaramuccia (o “Scaramuccetto”) era invece un uomo d’arme assai noto al suo tempo, reduce di molte battaglie tanto sul fronte dei Milanesi, quanto su quello dei Veneziani. Considerato come nei nostri documenti egli appaia come un veterano, è assai probabile che si tratti dello stesso Scaramuccetto già al soldo di Francesco Sforza nell’ottobre del 1447, opposto ai Veneziani quale caposquadra. Tra 1452 e 1453 la sua fedeltà alla causa sforzesca venne meno e defezionò a favore dei Veneziani, solo per essere catturato nell’agosto del 1453 e condotto alla presenza dello Sforza, che tuttavia gli risparmiò la vita e lo riammise al proprio servizio. Da allora fino al 1480, anno della sua morte, non avrebbe più abbandonato la casata sforzesca, trovandosi più volte opposto sul campo di battaglia alle milizie colleonesche (per le sue vicende, CLICCA QUI).

Il piccolo nucleo di tre documenti che riportano questa vicenda (del cui esito finale purtroppo nulla sappiamo) è una supplica datata al 4 febbraio e rivolta da Scaramuccia a Galeazzo Maria Sforza, oggetto di questo articolo. 
Seguiranno nelle prossime “puntate”, oltre ad una disamina più approfondita del rituale del duello, l’edizione di una missiva indirizzata da Iacopo a Scaramuccia il 9 febbraio dello stesso 1472, in risposta ad una sua lettera di sfida (purtroppo dispersa) del 2 febbraio. La rassegna si concluderà in terza battuta con una seconda missiva del “Prete”, datata al 23 febbraio, in risposta ad un’altra speditagli dall’avversario il 14 febbraio e interamente trascritta a piè di pagina.

In estrema sintesi, pertanto, quello che ci resta sono una supplica dello Scaramuccia, che rievoca la vicenda ne suoi tratti generali, una sua missiva trascritta in copia ed altre due dello Iacopo. Risulta invece dispersa una lettera inviata dallo Scaramuccia il 2 febbraio, a sua volta stilata in risposta ad un’altra del “Prete” spedita il 24 gennaio, anch’essa non pervenuta.

La scansione cronologica del carteggio si può dunque ricostruire come segue:

  • missiva del 24 gennaio scritta da Iacopo a Malpaga, indirizzata a Scaramuccia in Pavia (perduta)

  • missiva del 2 febbraio scritta da Scaramuccia e indirizzata a Iacopo (perduta)

  • supplica 4 febbraio indirizzata da Scaramuccia al Duca di Milano (conservata)

  • missiva del 9 febbraio scritta da Iacopo a Malpaga, indirizzata a Scaramuccia (conservata)

  • missiva del 14 febbraio scritta da Scaramuccia a Pavia, indirizzata a Iacopo (conservata in copia)

  • missiva del 23 febbraio scritta da Iacopo a Urgnano, indirizzata a Scaramuccia in forma di ultimatum a confronto ormai deciso (conservata).

Prima di concedere spazio al documento, relativamente agevole visto il ricorso ad un volgare molto colorito e intelligibile, devo premettere alcuni dettagli metodologici. Nella trascrizione mi sono attenuto il più possibile alla sintassi della supplica, mantenendo legate parole che nell’italiano contemporaneo dovrebbero essere slegate (vedi per esempio “lahabitacione”), mentre ho imposto una punteggiatura moderna per renderla più scorrevole, oltre all’uso delle maiuscole per definire i titoli onorifici spettanti al principe.

Parte iniziale della supplica datata 4 febbraio 1472.

Parte iniziale della supplica datata 4 febbraio 1472.

Mi auguro che questa lettura possa essere per tutti un piacevole “giocho di magatelle et da puti picinini” e faccia apprezzare le vicende di questi uomini d’arme, la cui unica memoria di una vita avventurosa è spesso consegnata a poche, fragili righe vergate sulla carta.

Illustrissimo et excellentissimo Signore, a la Vostra Excelencia expone il vostro fidelissimo servitore et fameglo d’arme Scaramucia de Calabria che Iacobo dicto “Preto” de Villanteno, fameglo del Bartholomeo1 Colione, sotto pretexto et fictione de vollere zugare de balestra, se retrovato a caxa de lahabitacione di esso Scaramuza cum Colla, tunc suo famiglo, et in camera di esso Scaramuza fuy imparlamento cum dicto Colla. Et deinde passati pochi giorni, dicto Colla et Antonio, famigli dil dicto Scaramuza, sono fuziti2 cum certi cavali et altre robbe dil dicto Scaramuza, como fermamente se crede per subornacione, instigacione et simulacione dil dicto Prete, il quale andava vociferando indebitamente che esso Scaramucia era fugito dal dicto Bartolomeo, per laqual cossa il dicto Scaramuzia3 dise al Prete che mentiva per la gulla et che se luy voliva questo impugnare per lo dicto Bartolomeo, che esso Scaramucia combaterebe cum luy. Et luy Prete rispoxe che non, ma dicendo che4 che5 dicto Scaramuza faceva male ad lamentarse del dicto6 Bartolomeo; et luy Scaramuza rispose che Bartolomeo predicto li haveva facto spendere li beni proprii et quali non haveva may guadagnato cum isso Bartolomeo. Et postea Iacobo de Vibexalia, homodarme de Vostra Signoria, etiam7 dixit che Veneciani haveriano decemillia cavali scripti8 et decemillia fante da pede et che bixognando a Bartolomeo fare facti darme cum Vostra Signoria, haverebe tanti9 valenti homini darme chel porebbe fare talle facto de arme che talle crede de vencere che per(…)be10. Et similiter Gulliermo de Vibexalia, di dicto Iacobo fratello, rispoxe che Vostra Signoria ha sua gente darme cossi bene imponto che quando hanno comandamento de cavalchare vano a pede cum li sassi in11 pecto. Et dicto Scaramuza rispoxe che mai non ha vedute12 gente darme de Vostra Signoria andare cum sassi in pecto, ma cavalchare cum le arme et bene impuncto et che Vostra Excelencia haveva zinquecento famigli de arme sufficienti ad resistere a tuta la gente darme de Veneciani. Et dicto Gulliermo rispoxe che dicti vostri famigli erano boni a zogare un13 giocho di magatelle et da puti picinini, villipendendo dicti famigli de Vostra Signoria.

Unde il dicto Scaramuza, fidelissimo servitore di Vostra Signoria, le predicte cosse tute ha voluto significare ad Vostra Excelencia, acio la prelibata Signoria Vostra in le predicte cosse se degna fare quella provixione meglo li piace, ne dicti maldicenti decetero habiano cagione de perseverare in lo maldire.

1472, die IIII° februarii.

Lecta fuit hec supplicacione14 die suprascripta Illustrissimo Principi nostro, presentibus Gulielmo et Iacobo de Vibesalia, armigeris ducalibus.

Note:

1  Segue “Coglione” depennato
2  Segue “de isoldati” depennato
3  Segue “die” depennato
4  Segue parola depennata: “dictg” (lettera finale d’incerta lettura) ed “o” soprascritta all’ultima lettera
5  Così nel testo
6  Segue “capitaneo” depennato
7  Segue “ha dicto” depennato e “de” depennato in sopralinea
8  Così nel testo
9  Segue “ho” depennato
10  Parola lacunosa per la presenza di un foro di filza
11  Segue “peto” depennato
12  “ha vedute” aggiunto in sopralinea
13  Segue “zo” depennato
14  Così nel testo

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Trascrizione documento a cura di Marco Vignola (tutti i diritti riservati)

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 10.03.2018; tutti i diritti riservati.
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Correva l’anno 1476 e Genova si trovava sotto la signoria milanese, allora esercitata dal Duca Galeazzo Maria Sforza (1466-1476). Era quella una stagione tumultuosa di scontri di fazione, di ribellioni ricorrenti e mutevoli giochi di alleanze, nella quale lo Stato genovese attraversava un periodo di elevata instabilità interna, solo a stento arginata dalla soggezione a Milano.

Entrare nel dettaglio di una storia tanto complessa esula certamente dallo scopo di questo intervento, la cui finalità principale è l’edizione di un’interessantissima missiva inviata allo stesso Galeazzo Maria il 18 settembre 1476 da mastro Pietro di Boemia, “bombardero” di quello stesso Duca ormai giunto al capolinea del proprio governo (sarà infatti assassinato il 26 dicembre dello stesso anno, solo tre mesi dopo la nostra lettera). Il documento, a quanto mi consta ancora inedito e trascritto direttamente dall’originale, apre una finestra di rara bellezza non soltanto sul clima di tesa aggressività politica che allora si respirava in città, ma offre spunti per uno scorcio di “cultura materiale” delle armi da fuoco manesche, testimoniandone oltre ogni ragionevole dubbio la diffusione capillare.

Pietro, il cui appellativo “de Boemia” lo attesta come uno specialista straniero venuto a servire le artiglierie ducali, si trovò ad incontrare un certo “bombardero de Fiandra” (la decisione di mantenerne l’anonimato non è a mio avviso casuale), venuto a Genova a produrre “spingarde e schioppetti” per la somma ragguardevole di 8 ducati al mese. Costui, probabilmente per una forma di complicità tra stranieri e compagni d’osteria, avanzò richiesta di visitare il Castelletto (la fortezza che allora dominava sulla città, fulcro strategico del suo controllo), ricevendo tuttavia da Pietro un diniego per la mancanza di una specifica autorizzazione. Fattasi la discussione più cordiale e forse complice il vino, il nostro anonimo artigiano fiammingo divenne loquace, ammonendo Pietro del pericolo di un’insurrezione imminente. In città, infatti, proseguivano celermente i preparativi per una rivolta contro la signoria milanese (cosa che sarebbe puntualmente successa da lì a poco, nel marzo 1477), con la costruzione di bocche da fuoco nel quartiere del Molo da parte di tre maestri, produttori di bombardelle e spingarde in ferro. Altre due spingarde di bronzo erano state nel frattempo gettate e venivano custodite in casa Spinola, mentre in segreto si munivano le torri cittadine con balestre pesanti “da bancho”, spingarde e bombardelle navali, tutte mirate al Castelletto. Di eccezionale interesse in questo frangente è la menzione di un mercante di Norimberga giunto in città con 300 “chioppetti de bronzo manicati” (ovvero, 300 schioppi in bronzo con le loro calciature), venduti con le relative forme per la fusione delle palle, tutti puntualmente acquistati dai Genovesi. In città, infine, i preparativi per l’insurrezione fervevano anche con la produzione di rotelle, targoni e balestre, a completare il panorama di una popolazione segretamente in armi.

Come anticipato, un documento di questo genere offre un’ampia rosa di spunti per la comprensione della realtà genovese, ben oltre il semplice dato della mal tollerata signoria sforzesca. In prima battuta, infatti, ci mostra come nel settore delle armi da fuoco e della loro gestione si facesse ampio ricorso a professionisti nordici, secondo una tendenza già rivelata dai registri della Classis contra Regem Aragonum (1453-54), contenenti i nominativi dei soldati imbarcati sulla flotta opposta ad Alfonso V d’Aragona. Osserviamo inoltre come a Genova già nel 1476 si fosse insediata una manifattura autonoma di bocche da fuoco, tanto in ferro quanto in bronzo, favorita dall’apporto di maestranze specializzate e itineranti come il nostro anonimo fiammingo.

Ciò naturalmente non escludeva l’importazione di ingenti quantitativi di armi da laboratori di area tedesca: i 300 schioppi in bronzo di Norimberga, andati immediatamente a ruba, rappresentano infatti una partita di proporzioni imponenti e sufficiente ad armare un piccolo esercito, ma soprattutto dimostrano come armi di foggia tedesca potessero circolare in buon numero nella Genova del Quattrocento. Considerando la presenza di fabbriche ormai consolidate anche in Italia, come quella di Gardone (nel 1459 il Senato di Venezia ordinò ai Rettori di Brescia di farvi produrre molte bocche da fuoco, tra le quali 50 schioppetti), è piuttosto plausibile che la scelta di questi prodotti germanici fosse dettata dalla segretezza, agevolata da un trasporto marittimo. Un carico someggiato dall’Oltregiogo direttamente dai luoghi di produzione del bresciano avrebbe infatti dato nell’occhio dei Milanesi ben più di una nave attraccata in porto, suscitando un immediato allarme.

All’epoca del nostro documento, in ogni caso, la manifattura delle armi da fuoco a Norimberga era ormai consolidata: nel 1429, infatti, vi troviamo già attivo un sodalizio di tiratori di schioppo, con un anno di anticipo su un’analoga organizzazione operante ad Augusta, ed è plausibile che questa produzione fosse anche tecnologicamente all’avanguardia, forse più delle coeve manifatture italiane.

Non risulta tuttavia semplice indovinare dalle parole di Pietro di Boemia quale fosse la forma dei 300 schioppi, perché il nostro documento tace al riguardo, limitandosi solo a definirli genericamente di bronzo, “immanicati” e provvisti delle forme (quasi certamente i fondipalle del calibro corretto). All’epoca, comunque, era in corso una transizione dai modelli più arcaici forniti di canne innestate a gorbia sopra un palo opportunamente sagomato, alle canne munite di flange di fissaggio, che venivano appoggiate su una calciatura strutturalmente simile a quelle moderne ed ivi fermate da due spine. Questo sistema più aggiornato permetteva di sparare tenendo la mano sotto la canna, in posizione sicura e al riparo dal surriscaldamento dovuto all’uso, per una più efficace collimazione del bersaglio. Armi di questa tipologia e con canne in bronzo (stando al colore usato per dipingerle) sono già attestabili per via iconografica in anni non lontani dal nostro documento nelle Amtliche Berner Chronik di Diebold Schilling (Bern, Burgerbibliothek, Mss.h.h.I.1; commissionate nel 1474 e miniate tra 1478 e 1483), dove appaiono anche fornite di un probabile sistema “a serpentina”, per avvicinare la miccia di accensione alle polveri senza doverla condurre a mano (Fig. 1).

Fig. 1

Fig. 1

In alcuni degli esemplari riprodotti nelle Cronache di Schilling (non in tutti, perché manca questo dettaglio in numerose tra le molteplici raffigurazioni di schioppo di questo volume; Fig. 2), compare infatti sul calcio una sorta di struttura “a S”, che può essere a mio avviso spiegata solo in questa ottica. La miccia accesa, che alcuni tiratori tengono in mano, doveva essere fissata ad un capo della S, per venire poi accostata ad uno scodellino laterale contenente la polvere dell’innesco.

Fig. 2

Fig. 2

Calciatura di nuovo modello, meccanismo di sparo e scodellino coperto laterale (quest’ultimo d’invenzione più antica, ma scarsamente diffuso fino all’ultimo Quattrocento) erano i tre elementi che segnarono la transizione della forme più arcaiche a gorbia, di origine trecentesca, alle armi del Cinquecento maturo, ormai del tutto perfezionate. La disponibilità dello scodellino in luogo del focone aperto sopra la canna, in particolare, permetteva di trasportare l’arma già carica, senza il rischio che l’innesco si disperdesse dal focone in caso di rotazione o di alzo verticale.

Le tappe di questa transizione non risultano oggi del tutto chiare e l’iconografia coeva ci presenta armi da fuoco manesche diversamente evolute, ma impiegate nel medesimo arco di tempo del documento genovese. Nel celebre Wolfegg Hausbuch, risalente agli anni ’70 del Quattrocento, un gruppo di schioppettieri in marcia trasporta infatti delle armi probabilmente in bronzo e ancora inastate a gorbia su un palo, dall’aspetto molto più arcaico rispetto al Amtliche Berner Chronik (Fig. 3).

Fig. 3

Fig. 3

In ambito italiano, in una miniatura raffigurante Galeazzo Maria Sforza, forse di Cristoforo de Predis e oggi conservata presso la Wallace Collection (ante 1476), un gruppo di schioppettieri milanesi coperti da celate e cervelliere brandisce armi anch’esse di tipologia arcaica, ancora munite di gorbia ma immanicate su un calcio già anatomicamente sagomato (Fig. 4).

Fig. 4

Fig. 4

Nelle miniature di Giovanni da Fano dell’Hesperis, coeve alla precedente ma penalizzate da un minore livello di dettaglio, è impossibile definire con assoluta certezza le caratteristiche degli schioppi, sfuggite nei tratti più minuti al rapido pennello dell’artista. Da un particolare della copia conservata alla Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi sembra tuttavia scorgersi una tipologia “a gorbia” simile a quella delineata nel manoscritto della Wallace (Fig. 5).

Fig. 5

Fig. 5

Per ritrovare uno schioppo montato su una calciatura di stile moderno, dobbiamo infine rivolgerci ad una pittura parietale nella “Sala del Mappamondo” del Palazzo Comunale di Siena, dove Giovanni di Cristoforo Ghini e Francesco d’Andrea immortalarono nei primi anni ’80 del Quattrocento la battaglia di Poggio Imperiale (1479).

La rassegna per anni successivi al nostro potrebbe arricchirsi di ulteriori esempi, che porterebbero tuttavia il discorso troppo lontano dal nucleo originario: la possibile fisionomia dei 300 schioppi citati nel nostro documento. Allo stato attuale delle ricerche, come abbiamo osservato, la forte variabilità delle armi da fuoco portatili negli anni ’70 del Quattrocento suggerirebbe molta prudenza. Nelle migliore delle ipotesi, questi manufatti potevano già presentare caratteristiche evolute come quelle delle Berner Chronik ed avere canne in bronzo dalla forma non troppo dissimile da quella d’uno schioppo oggi nella collezione del Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, datato da catalogo al 1500 circa e già fornito di tutte le caratteristiche di un’arma da fuoco evoluta (calciatura completa, scodellino laterale e sistema di sparo a scatto; Fig. 6).

Fig. 6

Fig. 6

Nel 1476 è tuttavia plausibile che alcune di queste caratteristiche ancora mancassero ed in particolare il meccanismo di scatto a bottone; elemento di forte modernità assente in alcune tra le armi raffigurate nello Zeugbuch Kaiser Maximilians del 1502 (Fig. 7), a differenza dello scodellino laterale, presente in tutte. Nella più elementare delle ipotesi poteva invece trattarsi di semplici canne con gorbia alla culatta, fissate su una calciatura a palo variamente sagomato, come quelle del Wolfegg Hausbuch.

Fig. 7

Fig. 7

Per tentare una risposta più precisa sarebbe necessario scandagliare il fondo notarile dello sterminato Archivio di Stato di Genova, alla ricerca di ulteriori dettagli, con uno sforzo immane e dal successo tutt’altro che scontato.


Archivio di Stato di Milano, Autografi, Fabbriche di armi e armature, 231.

«Domino Duci Mediolanensi.
1476, die XVIII septembris, Gambolate.
Magistro Petro de Boemia, bombardero de la sublimità vostra in Genoa, dice che circa uno mese et mezo, havendo lui provato certi mortari de vostra signoria, uno bombardero de Fiandra quale gli ha dicto essere conducto con Zenoesi per octo Ducati el mese, con le spese per lavorare spingarde et schioppetti, lo menò con si un una hostaria et domandolo sel posseva vedere el Castelletto de dentro. Al quale dicto magistro Petro respose che non era possibile senza licentia et l(itte)re de vostra signoria. Adlhora dicto bombardero de Fiandra li dixe: “fratello, guardate bene non andare troppo per la terra, perché costoro te taglieranno apezo, perché io intendo bene lanimo et dispositione loro et nanzi che sia troppo tempo le cose andaranno per altra via, siche guardati da Zenoesi et fa à mio senno, che non voria che tu che sii valenthomo periculasse; in(de) conzi mortari; anche li altri ne conzano”.
Item dice che uno mercatante todescho ha portato à Zenoa da Norimberga 300 chioppetti de bronzo manichati et con le sue forme, et tutti sonno comprati per Zenoesi, et lui li ha venduti.
Item dice che sonno tri magistri al molo che lavorano spingarde et bombardelle de ferro, et subito finite sonno portate per le case et ascosi.
Item che uno stagnaro ha facto due spingarde de bronzo che le ha viste lui apresso casa Spinola, et che le vidde facendo prova volere comprare bronzo, et similiter li vedde fare molte ballotte de piombo da spingarde et domandandolo che ne voliva fare, gli rispose dicto stagnaro: “al corpo de Dio fra [ndr, così nel testo], le volimo operare uno di”.
Item che per certe torre che mirano al Castelletto sonno misse alchune balestre da bancho, et spingarde et bombardelle da nave et gli foreno messe el di del remore [ndr, così nel testo].
Item fanno fare Zenoesi molti tarconi et rotelle et balestre».

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Replica di schioppo del tardo Quattrocento imbracciata dall’autore dell’articolo, membro IMAGO ANTIQUA

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Dettaglio dello “scodellino” coperto laterale

Bibliografia sintetica:

BOLOGNINI P. (a cura di), Armi antiche a Gardone, “Quaderni del museo”, 1, dicembre 2007.

DURDÍK M., MUDRA M., ŠÁDA M., Armi da fuoco antiche, La Spezia, 1989.

GAIBI A., Armi da fuoco italiane, Busto Arsizio, 1978.

GODOY J. A., Armes a feu, XV-XVII siecle. Collection du Musée d’Art et d’Histoire, Genève, Ginevra, 1993.

MUSSO R., “El stato nostro de Zenoa”. Aspetti istituzionali della prima dominazione sforzesca su Genova (1464-1478), in “Serta antiqua et mediaevalia”, V, Società e istituzioni del medioevo ligure, Roma, 2001, pp. 199-236.

OLGIATI G., Classis contra regem Aragonum (Genova, 1452-54). Organizzazione militare ed economica della spedizione navale contro Napoli, Cagliari, 1990.

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