Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 02.03.2020; tutti i diritti riservati.
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In una delle ricerche d’archivio condotte anni or sono, rimasi affascinato da un breve documento del 2 aprile 1476 che, sebbene in poche righe, descriveva perfettamente il rapporto “difficile” delle società passate con il rischio di una pandemia.

Il trauma della grande peste del 1347-49, a oltre un secolo di distanza, era tutt’altro che sopito e la vigilanza contro l’episodico ripetersi di focolai d’infezione era sempre altissima. Nonostante una totale ignoranza degli agenti patogeni responsabili del contagio, il concetto di trasmissione da uomo ad uomo era chiarissimo e in mancanza di ogni terapia efficace si ricorreva all’unica forma di profilassi ancora oggi adottata: la quarantena e la limitazione degli spostamenti dalle aree di contagio.

Una volta identificate le zone dei principali focolai, l’ufficio di sanità imponeva un bando su ogni spostamento dalle aree a rischio, valido per chiunque, senza la minima distinzione di ceto. Tale bando, una volta diramato, veniva “gridato” pubblicamente dal cintraco (il pubblico banditore) nei luoghi a ciò deputati e costui doveva infine confermarne la lettura, come si evince dall’ultima parte del documento.
Più nel dettaglio, le aree dalle quali venivano interdetti gli spostamenti erano quelle di Diano e di Albenga e le pene minacciate per i contravventori ricadevano non solo sugli autori dell’infrazione, ma anche su coloro che li avessero ospitati; osti, tavernieri o comuni cittadini.

La gravità della sanzione, ovvero la pena capitale, dimostra quanto seriamente venisse presa la questione e quale livello di attenzione si imponesse alla cittadinanza intera. I diffusori di un contagio da aree infette, dopo la proclamazione di un divieto, erano in tutto e per tutto assimilati ai rei di omicidio.

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Archivio di Stato di Genova, A. S. 3507 (Diversorum Comunis Ianue)

Pro officio sanitatis Ianue.
+MCCCCLXXVI die IIa aprilis.
Preconate vos preco comunis et cetera
parte magnifici ac illustris domini ducalis,
ianuensis vicegubernatoris, et spectanti1 officii
sanitatis comunis2 Ianue. Che non sia alcuna
persona de che grado, stato o
condictione se sia chi ossa ne
prexuma andare per ritornare a
lochi infrascripti contaminati
de peste, ne etiam da quelli
venire, socto pena de la vita
et3 ogni altra pena peccuniaria,
in arbitrio del dicto officio. Li qualli
lochi infecti s(on)o questi:
la ripa de Diano
et tute le ville de Albenga.
Item se comanda a tu li hostorani,
tabernari et altre persone
che ne prexumen4 socto la predicta
pena receptarli.
[S.T.] Nicolaus de Credentia, cancellarius.
Die IIIa aprilis
Nicolaus Rasperius, cintracus comunis5, retulit
hodie6 proclamasse in omnibus ut supra in locis
publicis et consuetis.

 

1 così nel testo
2comunis” aggiunto in sopralinea
3 segno abbreviativo sopra “et” frutto di errore dello scrivente
4 così nel testo
5comunis” aggiunto in sopralinea
6hodie” aggiunto prima della linea

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 10.12.2018; tutti i diritti riservati.
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L’Archivio di Stato di Genova ha conservato una preziosa serie di mastri di zecca (il cosiddetto fondo “Zecca Antica”), i quali coprono, sebbene in maniera discontinua, un periodo che va dal 1365 al 1487, rivelandosi estremamente utili per comprenderne le logiche di funzionamento.

Lo studio integrale e la trascrizione dell’intera serie, ovviamente, vanno ben oltre le finalità di questo breve testo preliminare, nato come tesina per un corso di Numismatica Medievale tenuto presso la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) dai professori Ermanno Arslan e Andrea Saccocci ed ora offerto ora sulla mia pagina di Academia.edu
Per ragioni di sintesi, infatti, la scelta è qui ricaduta sull’analisi delle registrazioni d’un singolo anno, il 1427, relativo ad un periodo grossomodo centrale rispetto ai limiti della serie tardo-medievale e riferibile agli anni della signoria di Filippo Maria Visconti su Genova (1421-1435).

Con l’avvento della signoria viscontea si interruppe l’abituale serie dei dogi perpetui e la monetazione genovese, pur con un sostanziale adeguamento ai valori precedenti, adattò tipi e leggende ai dettami del nuovo corso politico. Sotto il duca di Milano si batterono così un ducato d’oro, un grosso d’argento (di due tipi diversi), un soldino, una petachina ed un minuto, elencati secondo un ordine decrescente di valore.

A livello di leggenda, su tutte le monete (sebbene con diverso codice d’abbreviazione) comparve la scritta «FILIPPUS MARIA DUX MEDIOLANI DOMINUS IAN(UE)», con una forte enfasi, appunto, sul suo neo acquisito ruolo di signore di Genova, rafforzata dall’apposizione del biscione visconteo a sovrastare il consueto “castello” genovese.

Considerato il valore eccezionale di questa serie archivistica, capace di proiettarci nel quotidiano di una zecca tra Trecento e Quattrocento, sarebbe auspicabile il suo recupero in vista di una pubblicazione più approfondita, possibilmente da parte di qualche studioso ben più ferrato del sottoscritto nella materia numismatica.

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