CLESSIDRE E CLEPSAMIE… FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA!
Le origini dei dispositivi portatili di misurazione del tempo tramite liquidi (clessidre) e polveri (clepsamie) non sono del tutto chiare.
Mentre la clepsydra – dal greco κλεψύδρα, comp. di κλέπτω «rubare» e ὕδωρ «acqua» – pare essere di origine egizia, le prime attestazioni iconografiche della clepsamia – neologismo – sono attribuite all’Italia del XIV secolo: Ambrogio Lorenzetti, nella fattispecie, l’ha ritratta in mano alla Temperanza, una delle sei figure allegoriche delle Virtù del Buon Governo che compaiono nel celebre ciclo di affreschi del Palazzo Pubblico di Siena, risalente al 1338-1339 [cfr. R. T. BALMER, The Operation of Sand Clocks and Their Medieval Development, Technology and Culture, Vol. 19, No. 4 (Oct., 1978), The Johns Hopkins University Press and the Society for the History of Technology, p. 616].
Numerosi e largamente indagati dalla critica sono i significati reconditi e le implicazioni filosofico-religiose richiamate dalle clepsamie, connesse alla condizione effimera e mutevole della vita umana (ad esempio, il tema ricorrente del memento mori), ma non è questa la sede opportuna per approfondire tali aspetti.
Sul piano della cultura materiale, che maggiormente interessa ai nostri fini, di certo gli orologi a polvere rappresentavano uno strumento di gran lunga più economico e semplice da realizzare, e quindi più diffuso nelle dimore dell’epoca medievale e rinascimentale, rispetto agli orologi meccanici, peraltro già documentati in Italia almeno dalla fine del XIV secolo; a questo ultimo proposito, si tenga conto che il sopravvissuto meccanismo della Torre campanaria di Sant’Andrea a Chioggia venne saldato nel 1386 [cfr. E. CAMPOREALE, Sugli orologi pubblici in Italia: presenze e rappresentazioni, in Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria, Volume LXXV, Nuova serie – LXI, Anno 2010, pp. 217-218].
Possediamo, altresì, testimonianze sufficienti ad affermare con sicurezza che nella vita quotidiana le clepsamie fossero comunemente impiegate per scandire intervalli temporali ridotti ma ricorrenti, come la lunghezza delle omelie, dei tempi di cottura, dei turni di lavoro (es. nelle botteghe artigiane), delle lezioni universitarie, delle orazioni nelle corti di giustizia [cfr. S. GUYE & H. MICHEL, Time & Space: Measuring Instruments from the 15th to the 19th Century, Praeger Publishers: New York; Washington; London (1971), p. 262-266]; in campo medico, invece, è plausibile che fossero di ausilio nella misurazione del battito cardiaco, sulla scorta di quanto già sperimentato da Erofilo di Calcedonia, anatomista della Scuola d’Alessandria, vissuto a cavallo tra III e IV sec. a.C. [L. R. ANGELETTI e V. GAZZANIGA, Storia, filosofia ed etica generale della medicina, Elsevier Masson, Milano (2008), p. 25]
Non si può ovviamente omettere di citarne l’utilizzo a bordo delle imbarcazioni, per la misurazione dei tempi di navigazione, laddove le clessidre non potevano funzionare a dovere, a causa dell’azione disturbante del moto ondoso sui fluidi contenuti al loro interno.
RICOSTRUZIONE DI UNA CLEPSAMIA DEL XV SEC.
Quella che segue è una relazione sul processo di manifattura di una clepsamia del tardo Quattrocento che abbiamo inteso percorrere, passo dopo passo, con l’impiego di materie prime e processi artigianali realmente pertinenti al periodo.
Dopo aver passato in rassegna le fonti dirette e indirette a disposizione, si è optato per la riproduzione della tipologia ritratta nel San Girolamo di Van Eyck (1435 c., Detroit Institute of Arts), opera che già avevamo considerato per la riproduzione del leggio (CLICCA QUI) e di altri accessori legati all’esercizio della scrittura che verranno analizzati in futuri approfondimenti tematici.
La prima necessità è stata quella di realizzare in modo consono i recipienti vitrei. Il Balmer riferisce che fino alla metà del XVIII sec., le clessidre venivano realizzate soffiando in matrice due distinti recipienti che venivano uniti per il collo tramite un sottile diaframma, piatto e dotato di un piccolo foro al centro (orifizio); essi erano quindi uniti insieme con spago e il punto di giunzione era sigillato con stucco oppure cera, nel tentativo di tenere a bada l’umidità [cfr. R. T. BALMER, op. cit., pp. 625-626].
Passando alla fase operativa, abbiamo subito dovuto fare i conti con un dato di fatto: la maggioranza dei mastri vetrai odierni utilizza panetti di silice raffinata industrialmente, del tutto inadatta ad ottenere valve che mostrino in trasparenza le imprescindibili caratteristiche di bollosità e impurità tipiche del vetro antico. Il primo ostacolo presentatosi si è quindi rivelato anche il più ostico da superare… Non trovando nessuno disponibile a ovviare a questo problema e non volendo d’altra parte ripiegare su prodotti finiti di ampia reperibilità ma provvisti di vetro e polveri inadatti, ci siamo rivolti ad antiquari e collezionisti di anticaglie, individuando, dopo mesi di ricerche, una serie di ampolline singole di incredibile qualità, in quanto soffiate a canna in matrice da una bottega fiorentina di fine ‘800-inizi ‘900, adottando processi e materiali analoghi a quelli del pieno Medioevo. Tra esse sono stati selezionatei i due migliori esemplari per regolarità, colore e trasparenza.
Ignorando cosa venisse precisamente impiegato al tempo come dispositivo di filtraggio della polvere (diaframma) – non sono state individuate fonti su questo dettaglio – abbiamo creato un tondello di pergamena caprina, conciata e trattata con sostanze naturali, largo circa 20 mm e spesso circa 1,5 mm, previamente forato nel centro con una lesina da calzolaio.
La qualità della polvere condiziona il buon funzionamento futuro dello strumento, pertanto occorre sceglierla con estrema oculatezza e testarla preventivamente all’unione definitiva delle due ampolline, in modo da non mandare a monte ore di lavoro!
La documentazione raccolta riporta l’uso di una grande varietà di sostanze differenti, alcune semplici e direttamente reperibili in natura, altre originate dalla mescolanza di più elementi: polvere di marmo, polvere d’argento, polvere di stagno, limatura di ferro, limatura di rame, piombo carbonizzato, sabbia veneziana (misto di stagno e piombo carbonizzati), cannella macinata, gusci d’uovo polverizzati, smeriglio fine, sabbia di fiume [cfr. R. T. BALMER, op. cit., p. 623].
Istruzioni tecniche per la realizzazione di una polvere per clessidra sono contenute nel Ms. Fr. 640 presso la Bibliothèque Nationale de France (titolo: Recueil de recettes et secrets concernant l’art du mouleur, de l’artificier et du peintreper), per quanto tale manoscritto in lingua francese, databile al XVI sec., rappresenti una fonte piuttosto tarda rispetto al nostro periodo di riferimento.
Al folio 10r si legge quanto segue: «Deve essere confezionata molto fine e non soggetta alla ruggine e con peso sufficiente per scorrere. Prendi 1 lb. [217] di piombo, fondilo, scremalo e purificalo dalla sporcizia, quindi versavi dentro quattro ℥ [ndr, once] di sale comune finemente macinato, prestando attenzione che non vi siano pietre o terra. Ed immediatamente dopo averlo versato, mescolalo di continuo e molto bene con un ferro [attrezzo] finchè il piombo e il sale siano completamente incorporati e toglilo immediatamente dal fuoco, mescoldando di continuo. E se ti pare troppo grezzo, frantumalo su una lastra di marmo e passalo ad un setaccio fine, poi lavalo tante volte quanto è necessario affinchè l’acqua diventi limpida, gettando via la polvere sottile che vi galleggerà in superficie, rinnovando l’acqua tante volte quanto necessario, finchè sarà completamente chiarificata».
E’ abbastanza evidente che, mentre la scelta del tipo di sostanza non risponde a regole ferree, il requisito fondamentale è che i granelli siano perfettamente regolari, senza dunque presentare angoli, in modo da assicurare uno scorrimento ottimale ed evitare di intasare il foro della membrana posta a separazione delle due ampolle.
Alla luce del materiale analizzato, per la nostra replica di clepsamia abbiamo optato per semplice sabbia tratta dal litorale riminese, considerata l’insolita regolarità e finezza della stessa.
Valve, diaframma, polvere: tutti gli elementi di base sono presenti. A questo stadio si procede con la simulazione del funzionamento, senza applicare collanti, tenendo insieme il tutto con il solo ausilio delle mani: si versa la quantità di polvere desiderata in una delle due valve e ponendo l’altra “testa contro testa”, con in mezzo il diaframma, si fanno combaciare perfettamente i tre fori. Rovesciando le valve, con la dovuta attenzione ovviamente, si misura il tempo totale di discesa della polvere, direttamente influenzato dalla grandezza dei grani e dalla dimensione delle ampolle. Agendo in questa maniera, compiuti i necessari adattamenti, nel nostro caso abbiamo ottenuto una durata totale di circa 20 minuti, la quale risulta in linea con quanto registrato per un originale al London Science Museum [cfr. R. T. BALMER, op. cit., p. 631].
Per la giunzione definitiva delle ampolline si è utilizzata della colla animale, avendo cura di consolidare il tutto con spago in canapa molto fine, anch’esso ben imbevuto nel collante e più volte ravvolto, a stretti giri, attorno alle imboccature.
Lasciato asciugare, si è passati a comporre una miscela di gesso marcio e colla animale nella proporzione di 3:1, poi applicata intorno allo spazio presente tra il restringimento delle valve e il diaframma: coperto interamente il viluppo di canapa su entrambi i lati, si procede in più mani, facendo rasciugare più volte il composto, fino a modellare il caratteristico “ringrosso” vagamente ovoide visibile negli originali e nelle iconografie, necessario per sigillare completamente gli interstizi e tenere quanto più possibile indenne da umidità la polvere posta all’interno.
Al termine, abbiamo fatto riposare il tutto per una notte. L’indomani, avendo notato la formazione di piccole fenditure nel ringrosso di gesso, abbiamo effettuato piccoli ritocchi, quindi lo abbiamo dipinto con tempera all’uovo di colore giallo ocra; una volta lasciato rasciugare, il lavoro è stato ultimato verniciando la superficie con albume misto ad olio di lino, alla maniera illustrata da Cennino Cennini nel CAP. CLVI de Il Libro dell’Arte [cfr.F. FREZZATO (a cura di), Cennino Cennini. Il libro dell’arte, Neri Pozza Editore, Vicenza (2009), p. 178]
La struttura esterna, fungente sia da sostegno che da protezione antiurto della parte vitrea, è stata commissionata ad uno dei più abili artigiani del legno presenti sulla piazza italiana, Ezio Zanini, già nostro fornitore di fiducia, il quale ha personalmente curato tutte le fasi di lavorazione di seguito riportate.
Particolare attenzione è stata riservata alla lettura dell’immagine di riferimento, per valutare le proporzioni e dimensioni del manufatto:
- si è notato un errore di prospettiva che porta ad un disallineamento tra la visione dell’asta posteriore sinistra e il suo riferimento visibile di piatto sulla superficie superiore della clessidra;
- abbiamo preferito immaginare, quindi, erroneamente raffigurata la distanza tra il vetro e la parete sinistra della clessidra stessa, ipotizzando più corretta la distanza ravvisabile sulla destra e sulla parte frontale dell’oggetto;
- l’analisi delle delle varie stecche orizzontali, rappresentate da tre strisce di colori differenti, ci ha indotto a credere che la sezione di ogni singola stecca potesse essere esagonale, in analogia del resto ad altri riscontri iconografici e originali.
I piccoli montanti verticali a sezione esagonale sono stati realizzati a mano; si è scelto il legno di acero, in quanto permette la realizzazione di intagli minuti, essenza in effetti ben attestata per tali lavori anche in mobilio ed altri manufatti dell’epoca.
Tutte le componenti della clessidra sono state realizzate a mano.
Per cerare ed impermeabilizzare a dovere tutte le parti lignee della clessidra, s’è preferito procedere prima dell’assemblaggio definitivo, saltando i punti in cui la colla doveva penetrare al meglio nelle fibre del legno; nel contempo si sono effettuati dei forellini e dei tagli sui piccoli montanti, lavorazione preliminare all’inserimento dei “cunei di fissaggio”, atti ad evitare il pericoloso propagarsi di fenditure lungo le venature delle stecche.
Ringraziamo sentitamente l’amico Ezio Zanini (www.viduquestla.it) per il supporto offerto nella realizzazione della replica in oggetto e per gli scatti del work-in-progress.
Articolo di ANDREA CARLONI (2017)