Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 18.11.2020; tutti i diritti riservati.
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Un’interessante lettera indirizzata al Missaglia da una non specificata autorità (con ogni probabilità Bona di Savoia o Cicco Simonetta), reca una data scritta a matita, “1478”, ma segue purtroppo il destino degli altri documenti costituenti l’unità “Autografi 231” dell’Archivio di Stato di Milano: ovvero, il distacco dal suo registro di appartenenza.

I fatti descritti, tuttavia, sono chiaramente allusivi ad un episodio bellico di un certo rilievo accaduto proprio in quell’anno, quando il 13 agosto le armate milanesi, condotte tra gli altri dal Conte Borella, vennero a battaglia nei dintorni di Busalla con i Genovesi capitanati da Roberto da Sanseverino. Lo scontro si risolse con una disfatta milanese, le cui tracce appaiono bene impresse nella lettera seguente. Oltre che nel morale, infatti, gli uomini d’arme milanesi si trovarono spogliati di una frazione o di tutto il loro equipaggiamento, a ragione del quale venne interpellato il Missaglia. A lui, infatti, si ordinava di rimpiazzare completamente le armature di coloro che le avessero perse e d’integrare quelle lacunose con le parti mancanti. Tutto il necessario avrebbe dovuto essere tratto dall’arsenale di Pavia (dove sappiamo che all’epoca di Galeazzo Maria Sforza erano custoditi armature sufficienti per coprire 500 uomini d’arme) oppure fornito con “ex novo”, qualora la munizione ne fosse stata sprovvista.

Armatura di Roberto da Sanserverino, Conte di Caiazzo (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Armatura di Roberto da Sanseverino (1485 c.), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Oltre alla conferma del ruolo centrale del Ducato nella distribuzione di armature ai soldati militanti sotto la sua bandiera, questa breve lettera regala alcuni spunti interessanti sulla genesi degli insiemi compositi. Non è cosa nuova, infatti, che tutte le armature milanesi giunte sino a noi, ad eccezione della “Galeazzo d’Arco” interamente d’officina Missaglia, siano marchiate con i “signa” riferibili a più botteghe. Molti di questi insiemi sono tuttavia il frutto di ricomposizioni moderne di elementi sparsi, compatibili per epoca e stile (si vedano per esempio quelle “delle Grazie” al Museo Diocesano di Mantova): altri, come la “Federico il Vittorioso” di Vienna, sono invece l’esito di un assemblaggio realizzato ancora in fase d’uso per specifici scopi torneari.

Marchi sulle scarselle dell'armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Marchi sulle scarselle dell’armatura attribuita a Roberto da Sanseverino (1485 c.)

Il nostro documento, a ben guardare, dimostra come la genesi di un’armatura composita potesse derivare anche da episodi traumatici, come la perdita di qualche parte o il danneggiamento in battaglia. Le armature milanesi, nelle loro semplici ma elegantissime geometrie apprezzate in tutta Europa, erano agli occhi dei contemporanei prima di tutto dei preziosi “strumenti del mestiere”, che dovevano assolvere alla principale funzione di tutelare il combattente. Le loro forme levigate, prive in genere di specifiche ornamentazioni, potevano all’occorrenza favorire la sostituzione di singole componenti senza che l’armonia dell’insieme, almeno alla distanza, venisse meno.

L’esistenza di grandi quantitativi di protezioni in piastra negli arsenali, ai quali si poteva attingere per ogni evenienza, lascia supporre che la composizione di un’armatura con parti non concepite “ab origine” come insieme organico e realizzato su misura, fosse una prassi molto consueta.

Replica dell'insieme composito conservato presso il Museo Diocesano "F. Gonzaga" di Mantova, catalogato da L. G. Boccia con la sigla B3 (proprietà Andrea Carloni, IMAGO ANTIQUA).

Replica dell’insieme composito B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.), conservato presso il Museo Diocesano “F. Gonzaga” di Mantova (proprietà A. Carloni, IMAGO ANTIQUA).

La ricomposizione moderna di un’armatura con elementi antichi, eterogenei e compatibili, come per Santa Maria delle Grazie a Curtatone, sarebbe dunque un’operazione legittimata dalle antiche esigenze operative di creare nuovi insiemi con parti di diverse forniture e forse anche di differente bottega. Quante armature composite e quante omogenee fossero presenti sui campi di battaglia è oggi difficile (o forse impossibile) da stabilire, ma è tuttavia sicuro che ambedue le soluzioni abbiano convissuto.

In questo senso, si comprenderebbe meglio la prassi milanese di ripetere la marchiature su ogni singola parte della panoplia difensiva, come la “Galeazzo d’Arco” compiutamente dimostra: in tal modo, anche in caso di sostituzioni, la paternità di ogni elemento sarebbe stata dichiarata senza fraintendimenti.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: spallaccio destro

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): spallaccio destro.


A.S.M. Autografi 231.

Antonio Misalie

Dilecte noster. Per remettere le nostre gentedarme che sonno stati spoliati in zenoese, havemo ordinato darli de le armature de la nostra munitione, videlicet armature integre ad quilli ne sonno spoliati in tutto, ed a quilli ne mancha qualche pezo [1] remetterli quella parte gli mancasse. Pertanto volemo che circa questo exequischi quanto per suoi buletini ti commetterano el conte Borella et d. Michele de Batalia, così in dare de le armature integre, como in far conzare quilli pezi gli mancasseno, toliendo ogni cosa dela nostra munitione, excepto quando li pezi che mancarano non fusseno nela nostra munitione daragli de li tuoi et metteragli al nostro cuncto, et nuy te li pagaremo segondo li precii consueti.

[1] Segue lettera depennata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie: bracciali con cubitiera armata.

Replica insieme B3 di S. Maria delle Grazie (1480 c.): bracciali con cubitiera armata.

Bibliografia sintetica:

– BOCCIA L.G. 1982, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone presso Mantova e l’armatura lombarda del 400, Busto Arsizio.

– MUSSO R. 2001, “El stato nostro de Zenoa”. Aspetti istituzionali della prima dominazione sforzesca su Genova (1464-1478), “Serta Antiqua et Mediaevalia”, V, Società e istituzioni del medioevo ligure, Roma, pp. 199-236.

– SCALINI M. 1996, L’Armeria Trapp di Castel Coira, vol. II, Udine.

– VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria.

Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 13.11.2019; tutti i diritti riservati.
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In ambito ricostruttivo e accademico, una vexata quaestio ricorrente è quella della finitura superficiale delle armature: ovvero, se queste venissero effettivamente lucidate “a specchio” o se ci si limitasse ad un trattamento meno radicale, con la permanenza di chiazze e un aspetto meno riflettente.

In un simile campo, è necessario premetterlo, la prudenza è d’obbligo, perché tra tutte le tappe produttive la lucidatura ha lasciato le tracce più labili in assoluto. Mentre le geometrie dei pezzi meglio conservati sono rimaste immutate (coi segni del maglio ancora impressi all’interno delle piastre) e i processi di tempra sono identificabili con precise analisi di laboratorio, la superficie del metallo non ha invece avuto analoga fortuna. Lasciando da parte i manufatti di scavo, logicamente deteriorati dalla giacitura, le stesse armature di arsenale hanno scontato secoli d’esposizione agli agenti atmosferici, con una manutenzione costante che ne ha modificato in maniera più o meno radicale l’aspetto: sicuramente in forma più elusiva rispetto ai manufatti archeologici e perciò quasi più insidiosa.

Quando una piastra si presenta oggi lucida, ma con macchie scure più o meno diffuse, come possiamo dunque capire se tali macchie siano il “fossile” di una corrosione poi rimossa o piuttosto un resto originale di calamina, residuo del processo produttivo? Per chi abbia pratica dei manufatti antichi, la somiglianza di queste tracce risulta evidente e foriera di fraintendimenti.
In questo senso, la migliore e non rara iconografia che ritrae realisticamente la lucidatura delle piastre (per una rassegna, CLICCA QUI), non sembra conservare evidenza di questi eventuali chiazze di calamina, alimentando il sospetto che, almeno nella produzione di livello medio-alto, i residui di lavorazione venissero puntigliosamente epurati o comunque rimossi fino al punto da non essere apprezzabili, se non ad un esame molto ravvicinato.

FRANCESCO PAGANO, Polittico di San Michele, 1492 c., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

FRANCESCO PAGANO, Polittico di San Michele, 1492 c., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli (fonte: Google Art)

Per quanto concerne la Milano del Quattrocento, sappiamo infatti che una schiera di artigiani si dedicava esclusivamente alla “molatura” e alla nettatura delle armature, che venivano loro consegnate dagli armorari in cambio di compensi stabiliti, come dimostrano due accordi stilati il 2 gennaio 1455 e il 31 luglio 1464 rispettivamente tra 20 e 25 magistri et amoratores et traversatores armorum civitatis et ducatus Mediolani, volti appunto a fissare un prezzario comune e condiviso per la loro prestazione professionale. Non si trattava ancora della formazione di un vero e proprio paratico, attestato in alcuni rogiti solo a partire dal 1476, ma piuttosto di alcuni passi ad esso preliminari, che però risultano molto interessanti per comprendere le dinamiche dell’arte.

In particolare, nel 1455 gli aderenti a questa “società” s’impegnavano a rinunciare a qualunque concorrenza sleale, non costruendo nuove traversere e non tenendo più di una traversera per volta, chiudendo persino le porte in faccia agli armaioli morosi con qualche altro sottoscrittore dell’accordo. Si stabiliva quindi un tariffario minimo al quale tutti dovevano attenersi, nella seguente misura:

– per una corazia (qui sicuramente designante un petto-schiena in piastre), XXVI soldi imperiali

– per un paio di arnexia saldarum (difesa per la coscia ed il ginocchio), XX soldi

– per un paio di brazalium saldarum (difese per le braccia in piastra), XI soldi

– per un paio di spalaziarum saldarum (spallacci in piastre), XII soldi

– per un paio di guanti in piastra, V soldi

– per un elmetto, XX soldi

– per una celata con visiera, VII soldi

– per una celata “da cavallo” (incerta la differenza con la precedente), VII soldi

– per una celata ab oculis (forse corrispondente alla tipologia “alla corinzia”), VIII soldi

PEDRO BERRUGUETE, Ritratto di Federico da Montefeltro con Guidobaldo bambino, 1476-1477 c., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

PEDRO BERRUGUETE, Ritratto di Federico da Montefeltro con Guidobaldo bambino, 1476-1477 c., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino (foto di Andrea Carloni – Rimini)

Quello che emerge in filigrana a queste carte, pertanto, è l’esistenza di un nucleo consistente di professionisti, i traversatori, che intervenivano in una fase terminale della produzione delle difese in piastra come imprenditori-artigiani autonomi rispetto agli armorari, in grado di dialogare con loro da una posizione di forza.

Nonostante le qualità meccaniche e le geometrie fondamentali dei pezzi venissero decisi a monte del loro intervento, l’importanza del loro ruolo nella filiera produttiva non deve a mio avviso essere sottovalutata. La loro maestria nel trattare la superficie del metallo sarebbe infatti apparsa evidente al compratore ancor prima delle qualità intrinseche del pezzo, aggiungendo molto all’appeal estetico del prodotto commercializzato.

Per quanto concerne le attrezzature da loro impiegate nel “mestiere”, sappiamo come già nella prima metà del Quattrocento a Milano si impiegassero mulini idraulici collegati a mole, per una nettatura ben più rapida della tradizionale pulizia manuale su panca, tramandata in numerose miniature del “Mendelschen Hausbuch” di Norimberga (segue immagine) e probabilmente mai scomparsa del tutto.

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 17 recto (Mendel I), 1425c

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 17 recto, Mendel I, 1425c (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

In una fase di grave penuria di farina, una grida della Repubblica Ambrosiana del 14 maggio 1447 imponeva infatti che entro otto giorni e per quattro miglia intorno alla città si levassero dalle traversere tutte le mole impiegate per le armi o i magli per la carta, adottando quelle atte alla macinazione del grano: segno inequivocabile di un processo meccanizzato già a quella data, in apparente anticipo rispetto all’area tedesca; la prima miniatura dell’Hausbuch che rimandi all’uso di mole idrauliche risale al 1523 (segue immagine).

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 138 recto (Mendel I), 1523

MENDELSCHEN HAUSBUCH, Amb. 317.2° Folio 138 recto, Mendel I, 1523 (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

Non è dato purtroppo di sapere se alla fase di molatura meccanica seguisse un ultimo intervento manuale “di fino”, perché a quanto pare il “traversatore” si occupava non solo delle fasi precoci della pulitura, con la rimozione del nero di forgia, ma anche della manutenzione dei pezzi già finiti, che richiedeva un approccio meno energico rispetto alla nettatura iniziale. Tra le materie accessorie impiegate nella lavorazione delle armature dobbiamo infatti ricordare lo smeriglio, pesto buono e finissimo di Milano “che tagli bene” per lucidare; smeriglio che da Milano veniva esportato e che la bottega avignonese di Francesco di Marco Datini tra fine Trecento e inizio Quattrocento vendeva anche a traversatori e maestri armaioli locali e della regione avignonese. E’ dunque verosimile (pur restando nel campo delle ipotesi) che la prima sgrossatura venisse realizzata con una o più mole di grana differente, per completare l’opera con una smerigliatura manuale.

L’utilizzo dello stesso lemma “traversare” anche per lavori di semplice manutenzione, eseguiti verosimilmente a smeriglio, è comunque ben chiaro in una lettera inviata da Antonio Missaglia al Duca di Milano il 15 gennaio 1474, nella quale rispondeva agli ordini di Galeazzo Maria circa la munizione del castello di Pavia, ove si conservavano almeno 500 armature da uomo d’arme e molte corazzine:

«…Cum grande devotione ho recevuto le vostre littere de di XIIII° del presente, per la quale vostra signoria me scrive ch’io venga a Pavia cum lingenierii necessarii, per che vostra signoria se delibera chel se faci la traversera per tenere polite larme de la vostra munitione. Unde aviso vostra signoria che ho trovato el magistro de la traversera amalato in una gamba per modo chel dice de presente non poter venire, nec altri magistri da traversera non se trova in questa parte…».

La connessione tra la pulizia delle armature e la “traversatura” di pezzi già finiti e depositati nell’arsenale è qui molto evidente, come appare anche del tutto chiara la volontà di preservare immacolata la munizione ducale. L’enfasi sul mantenimento estetico delle armature, d’altro canto, emerge anche in una precedente missiva del 29 novembre 1472, dove si legge con quanta sollecitudine si operasse perché la ruggine non rischiasse di “macchiare” (maculare) le armature:

«….In questi di passati jo andai a Pavia per vedere se a quello fondicho novo era datto principio de fornirlo secundo se richiede per conservacione de le armature che se hanno a repponere dentro, che serano armature cinquecento da battagla. Et conferendo cum el conte Zoanno, non trovandoli essere datto principio alcuno, me respose che aspectava certa risposta da Iacobo Alphero, et havita farebe tale spazamento in fornire dicto fondicho et quello bissogna per la torre, che vestra celsitudine remanerebe satisfacta. Al presente, essendo venuto qui a Mediolano et deliberando de andare a vedere se alcuno principio era facto per repparare, che tanto digna monitione non se venisse a maculare, ho inteso como el dicto conte Zohanne ha avuto el modo da vestra excelentia de fare le provisione oportune, si de lo fondicho novo como de la torre, secondo lo disegno facto per lo inzegnero, che stato la per dicta ragione cum Antonio del Missalia…».

Lo stesso Missaglia, dunque, era stato chiamato in veste di tecnico per adottare tutti i provvedimenti necessari alla conservazione di un arsenale prezioso non soltanto sul campo di battaglia, ma parimenti per il prestigio del Ducato: perché una munizione così degna “non venisse a maculare”, con sgradite chiazze di ruggine.

Un dettaglio raro ed inconsueto circa la traversatura è infine tramandato da un esempio rarissimo di superficie originale rimasta chiaramente intoccata per oltre 5 secoli, ovvero una porzione di elmetto da uomo d’arme facente parte del complesso delle Grazie di Curtatone (elmetto B4). Come racconta il Boccia, una volta rimosso il frontale per l’intervento conservativo, è infatti emersa sotto la piastra una sezione non ossidata, che ancora conservava l’originale finitura scintillante (segue immagine).

Tratto da: G. L. BOCCIA, "Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l'armatura lombarda del '400", Bramante Editrice, Busto Arsizio, 1982 (tav. XX)

Tratto da: G. L. BOCCIA, Le armature di S. Maria delle Grazie di Curtatone di Mantova e l’armatura lombarda del ‘400, Bramante Editrice, Busto Arsizio, 1982 (tav. XX)

Oltre a confortare l’accuratezza della migliore iconografia in merito ad una finitura “a specchio”, questo dettaglio dimostra inoltre come il traversatore operasse su pezzi smontati e il riassemblaggio finale fosse a carico dell’armaiolo, che li riprendeva in consegna dopo il trattamento.

In estrema sintesi, tornando alla vexata quaestio iniziale, iconografia e tracce materiali sembrano convergere sull’ipotesi che le armature milanesi del Quattrocento ricevessero una lucidatura a specchio, eseguita da un gruppo di artigiani specializzati proprio in questo step specifico della produzione armiera e non dagli armorari. Se questa venisse applicata all’intera gamma di prodotti o se piuttosto si limitasse a quelli di maggior pregio, resta tuttavia un quesito ancora aperto.

L’attenzione con la quale si operava perché la munizione ducale non si macchiasse e per mantenerla in buone condizioni estetiche, dimostrerebbe inoltre come tali macchie non fossero affatto viste come un blando inestetismo, ma piuttosto come un difetto da esorcizzare con ogni cura. Ben poco plausibile, pertanto, che gli armaioli milanesi accettassero di commercializzare prodotti con palesi segni esterni di calamina (per l’interno delle piastre, ovviamente, non esisteva questa cura), i quali ne avrebbero diminuito il pregio agli occhi dell’acquirente. Mentre le leggere asimmetrie di ogni manufatto antico non venivano percepite come fattore invalidante (sono ancora oggi riscontrabili anche sui pezzi di maggior pregio), le macchie di ruggine o i residui di lavorazione sarebbero invece apparsi solo come “macule” da consegnare alle sollecite cure di un traversatore e forse tollerate soltanto nella produzione più corrente…ma quella dei pezzi “da munizione” è tutta un’altra storia.

Per i dettagli bibliografici di questo contributo, che ne rappresenta una sintesi ragionata, si veda VIGNOLA M. 2017, Armature e armorari nella Milano medievale, Alessandria (CLICCA QUI).

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