Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 19.06.2024; tutti i diritti riservati.


INQUADRAMENTO TIPOLOGICO GENERALE

La consuetudine di sospendere alla cintura piccoli coltelli racchiusi in foderi di pelle, solitamente stampigliati o incisi, risulta ampiamente attestata in tutta l’iconografia bassomedievale e ben oltre i limiti del XV secolo.
Le dimensioni delle loro lame non sono in genere condizione sufficiente per ascriverli alla categoria delle “armi”, ma piuttosto tra gli utensili di uso comune. Si trattava, in estrema sintesi, di oggetti dalla funzione squisitamente pratica e civile, sottolineata da un tagliente in genere troppo ridotto per un impiego in campo bellico.

GIACOMINO DA IVREA, ciclo affrescato nel 1441; Cappella di S. Michele (Verrayes, fraz. Marseiller, AO) – copyright A. Carloni (2021)

ANDREA DELITIO, “Fuga in Egitto” (dett.), 1470-1480c; Coro dei Canonici c/o Cattedrale di S. Maria Assunta (Atri, TE) – copyright A. Carloni (2013)

Approcciandosi ad una descrizione tipologica delle lame di coltello, come succede per molti attrezzi di impiego quotidiano, bisogna tuttavia premettere il forte conservatorismo delle forme funzionali, che si possono mantenere quasi intatte per secoli e secoli, complicando o vanificando qualsiasi sforzo d’inquadramento troppo stretto.
A livello descrittivo, tuttavia, è comunque possibile individuare almeno tre grandi “famiglie”, tutte attestabili nel nostro periodo di riferimento, sebbene con diverso profilo di rarità: serramanico, a codolo stretto, a codolo largo.

Lama di coltello a serramanico rinvenuta presso gli scavi del Castello di Attimis (UD), XIV secolo


La prima di queste era caratterizzata da una lama (solitamente di dimensioni contenute) terminante in una linguetta collocata vicino al perno ove ruotava dentro al manico, a sua volta realizzato in materiale organico o talvolta in metallo. Tale linguetta, secondo un un impiego ancora attuale nei rasoi, aveva la funzione di facilitare l’estrazione del tagliente e mantenerlo in posizione, senza l’ausilio di molle o meccanismi d’arresto.
Ritrovamenti di coltelli a serramanico di ogni genere sono relativamente sporadici in contesti bassomedievali, in rapporto a quelli a lama fissa. Su un campione di ben 310 reperti individuati in scavi londinesi, per esempio, solo due sono a serramanico; situazione analoga a Rougiers, nel sud della Francia, dove questa tipologia risultava minoritaria. Restando in ambito italiano, alcuni esemplari figurano in repertori friulani (come Attimis e il Castello della Motta) e in altri contesti quali Castel Pietra a Gavorrano (GR) e Tremona, nel Canton Ticino.
Per quanto poco comuni, dunque, i serramanico dovevano essere sufficientemente diffusi e declinati in una rosa di forme difficilmente inquadrabili in una precisa area geografica o in un arco di tempo troppo ristretto, trattandosi d’una tipologia già documentata almeno dall’Alto Medioevo.

Coltello originale con manico in legno, tipologia “a codolo stretto”; prov. Inghilterra, 1480-1520 c. (collezione privata)

La seconda famiglia, certamente più comune della precedente, è quindi costituita dai tipi “a codolo stretto”, ove la lama terminava in un sottile prolungamento a “chiodo” inserito dentro a un manico di vario materiale e qui ribattuto. Dall’età romana tale forma risulta pressoché esclusiva in contesti nazionali insieme ai serramanico almeno fino al XIII secolo, quando ad essa cominciarono ad affiancarsi i tipi “a codolo largo”, come dimostrato in maniera non equivoca dagli scavi di Castelfranco Emilia (MO).
Analogamente a moltissimi coltelli odierni, due guanciole erano qui fissate alla superficie spianata del codolo tramite una serie di ribattini passanti, col risultato di un insieme decisamente più robusto rispetto alle tipologie a codolo stretto, sempre più rare col progredire del Trecento e ormai residuali nella seconda metà del Quattrocento.

Coltello originale con manico in legno, tipologia “a codolo largo”; prov. Inghilterra, 1480-1520 c. (collezione privata)

L’uso di trattenere le guanciole del manico tramite rivetti è in ogni caso corroborato nel Duecento anche per via iconografica: nelle scene di battaglia affrescate sulle pareti del Palazzo Comunale di San Gimignano, infatti, compaiono già alcune basilarde dotate di un manico a guanciole rivettate tra il 1288 ed il 1292, segnando un prezioso termine iconografico ante quem per questa soluzione tecnica.
Anche nel contesto ticinese di Tremona, manufatti di questo genere si attestano già in ambiti di XIII secolo, rafforzando l’idea di una transizione tipologica molto graduale a partire dal secondo Duecento.

Coltello originale con manico in osso, tipologia “a codolo largo”; prov. Inghilterra, 1480-1520 c. (collezione privata)

Tornando allo specifico della seconda metà del Quattrocento, i coltelli appartenenti a quest’ultima famiglia risultano decisamente i più documentati a livello iconografico ed archeologico, con una declinazione di varianti strepitosamente ampia.
A livello strutturale si osservano tuttavia alcune costanti che attraversano tutto il nostro periodo di riferimento.
In prima battuta, il codolo sul dorso viene quasi sempre a rastremarsi verso l’estremità del manico: espediente utile a ridurne il peso, spostando il bilanciamento della lama verso la punta. Un baricentro più avanzato, infatti, rendeva meno soggetto al ribaltamento un coltello appeso alla cintura, minimizzando (insieme a foderi conformati per accogliere la parte del manico più prossima alla lama) il rischio di smarrimento accidentale.

Un’altra caratteristica tecnica pressochè invariata nei coltelli della nostra epoca si localizza nel punto di passaggio tra guanciole e lama, il quale poteva essere lasciato franco da decorazioni oppure arricchito da elementi in lega di rame diversamente sagomati, ma comunque sempre rivettati al corpo del coltello.
In taluni casi, la transizione poteva essere segnalata da una lamina metallica (quasi sempre ottone, più di rado argento) che sovente veniva interposta tra guanciole e codolo, qui semplicemente ripiegata verso l’alto a rifasciare l’estremità delle guanciole stesse.

Coltellinaio al lavoro; “Mendelschen Hausbuch”, Amb. 317.2° Folio 95 verso, Mendel I, 1476 (fonte: www.hausbuecher.nuernberg.de)

Col volgere del Quattrocento e il principio del Cinquecento, tuttavia, gli antichi coltellinai iniziarono a realizzare un ringrosso alla base del codolo, finendo per sostituire le vecchie applicazioni con un nodo (spesso modanato) forgiato in un sol pezzo nel corpo del coltello: nasceva così una forma “moderna” che nel Cinquecento avrebbe rapidamente conosciuto una vasta fortuna, soppiantando le precedenti.
La varietà tipologica estrema di queste soluzioni permise una vastissima gamma di forme e decori, legati a specifiche funzioni, aree geografiche, prezzo e gusti individuali: una galassia che proveremo ad esplorare (anche solo in minima parte) nel prossimo contributo legato al mondo della coltelleria.

Il banco del coltellinaio nel mercato storico-didattico di IMAGO ANTIQUA – copyright U. Fedenco (2023)

Bibliografia sintetica

BELLI M. 2002, I reperti metallici provenienti dallo scavo di Castel di Pietra: studio preliminare dei contesti e presentazione della tipologia morfologica, inC. Citter(a cura di), Castel di Pietra (Gavorrano – GR): relazione preliminare della campagna 2001 e revisione dei dati precedenti, “Archeologia Medievale”, XXIX, Firenze, pp. 165-167.

COWGILL J. – DE NEERGAARD M. – GRIFFITHS N. 1987, Medieval finds from excavations in London: 1. Knives and scabbards, Woodbridge.

DEMIANS D’ARCHIMBAUD G. 1980, Le fouilles de Rougiers (Var). Contribution à l’archéologie de l’habitat rural médiéval en pays méditerranéens, Paris.

DU HEAUME G. 2020, The Queenhithe Collection, “Journal of the Antique Metalware Society“, 25, Suffolk.

LIBRENTI M. – ZANARINI M. 1998, Archeologia e storia di un Borgo Nuovo bolognese: Castelfranco Emilia (MO), in Archeologia in Emilia Occidentale. Ricerche e studi, a cura di S. Gelichi, Mantova, pp. 79-113.

MARTINELLI A. 2008, I reperti metallici, in Tremona Castello. Dal V millennio a.C. al XIII sec. d.C., a cura di A. Martinelli, Firenze, pp. 272-311.

PIUZZI F. 2003 (a cura di), Lo scavo del Castello della Motta (Povoletto), Firenze.

VIGNOLA M. 2003, I reperti metallici del Castello Superiore di Attimis, “Quaderni Friulani di Archeologia”, XIII, Udine, pp. 63-81.

Articolo di ANDREA CARLONI
Pubblicato il 12.04.2023; tutti i diritti riservati.

Dalle citazioni di camicie rinvenute da Oreste Delucca in inventari relativi a case cittadine del territorio riminese, spaziando dal 1430 al 1500 circa, emerge sovente una distinzione tra camicia da uomo, da donna o da bambino/a, tuttavia non è agevole ricostruire documentariamente le caratteristiche dell’una o dell’altra.

Cfr. O. DELUCCA, La casa riminese nel Quattrocento. La casa cittadina, vol. 2, Stefano Patacconi Editore, Rimini (2006), p. 1904

Per via iconografica siamo in grado di desumere una lunghezza differente: nel caso dell’uomo è raro che scendesse oltre il ginocchio, mentre per le donne di norma arrivava fino alle caviglie.
In entrambi i sessi la camicia fa capolino allo scollo e ai polsi e, laddove presenti, fuoriesce più o meno abbondantemente dalle “finestrelle”, aperture nell’abito poste lungo gli avambracci, in corrispondenza dei gomiti, delle spalle oppure dell’incavo delle ascelle.

Le maniche sono più o meno aderenti, variando anche in ragione della foggia dell’ “abito per di sopra”, poichè la presenza di finestrelle richiede un maggior panneggio; nel Sud Italia, a Napoli in particolare, dove più forte fu l’influsso della moda ispano-moresca, si giunse alle esagerazioni più evidenti in larghezza [1].

I documenti ci aiutano a chiarire quali fossero i tessuti in cui erano usualmente confezionate le camicie: si tratta di lino, canapa o cotone (non pervenuta la seta, almeno allo scrivente).
Secondo i nostri progenitori, le prime due fibre menzionate erano ritenute le più adatte in assoluto per via della connaturale proprietà di “immunizzare” chi le indossava; addirittura, era grazie ad esse che l’uomo poteva preservarsi “vigoroso nel seme” [2].

Piero della Francesca, Sollevamento della Croce, c. 1466, Basilica di San Francesco, Arezzo (fonte: www.travelingintuscany.com)

Rosita Levi Pisetzky, un’autorità nel campo del costume antico, scrive che nel Quattrocento «le camicie dei ricchi, soprattutto verso la fine del secolo, sono di finissima tela ‘de olanda subtile’, di rensa (ndr, deriva dalla città di Reims) o di Cambrai (ndr, città francese posta all’estremo nord-est, quasi al confine con il Belgio), si ornano di increspature al collo e ai polsi, e di liste d’oro, o di quei caratteristici ricami neri che fanno data. Proprio nell’ultimo decennio abbiamo qualche primo esempio di trina» [3].

In ambito sforzesco si documenta anche la tela renana (“del Reno”, quindi tedesca): nel corredo di Drusiana Sforza (1463) compaiono 40 camicie con questo tessuto, mentre sono ben 90 quelle appartenute a Bianca Maria Sforza (1493) [4].

Qualità e resistenza erano le priorità ricercate in questo indumento, per quanto i filati fossero più o meno raffinati, sottili o trasparenti, a seconda delle condizioni sociali.

Maestro delle Storie di Griselda, Storie della paziente Griselda (dettaglio), 1494 circa, National Gallery di Londra (inv. NG913)

Secondo Ornella Morelli, nel caso della gioventù maschile, in special modo a fine ‘400, alcuni commentatori attestano l’utilizzo di un tessuto più spartano e ruvido (“tela da sciugatoi”), una variante che, in conformità a certi canoni di educazione del tempo, avrebbe contribuito a rafforzare lo stereotipo di virilità maschile.
Osserva inoltre la studiosa «(…) la camicia appare come una tipica faccenda familiare. E’ infatti al riparo dalle mura domestiche che sembra si compia, tutto o in gran parte, il suo ciclo di lavorazione. “Per meglio servire le necessità virili” esso inizia dalla “compera” della matassa di lino, prosegue con le operazioni squisitamente casalinghe della filatura e tessitura e si conclude infine con la costruzione diretta o indiretta del capo, affidata talora alla diligenza di serve e “ischiave tenute per cucire” oppure “ordinata” di fare a non meglio identificati operatori esterni, anche se sempre sotto la “industria e sollecitudine”, la “discrezione e vigilanza” delle madri di famiglia e delle “femine di casa”» [5].

Nel corso del XV secolo, le camicie, sia maschili che femminili, in Italia si presentano in maggioranza piuttosto sobrie. Laddove presenti, con maggior enfasi nel momento del passaggio di secolo, decori ed abbellimenti si sostanziano in ricami (dorati, colorati o neri), intrecci di fili dorati o serici e trine/merletti.
L’ingresso nel pieno Rinascimento registra un incremento in termini di increspature ai polsi e allo scollo: come osservato dal Polidori Calamandrei, ciò gradualmente porterà allo sviluppo delle “gorgere” [6].

La camicia di Maria Maddalena ritratta da Carlo Crivelli nel 1480 c. (Rijksmuseum di Amsterdam, inv. SK-A-3989) esibisce delicate trine a traforo.

Si tratta di un leitmotif di questo artista, considerato che si trova anche in un’altra Maddalena, quella del Polittico di Montefiore, datato 1472 (Convento di S. Francesco, Montefiore dell’Aso, prov. AP).

Un altro probabile esempio di trine è rappresentato da Domenico del Ghirlandaio nel Ritratto di donna con paesaggio datato 1480-1485 c. (Lindenau-Museum di Altenburg).

E’ ricamata allo scollo, con leziosi motivi in semitrasparenza, la camicia indossata da Lucrezia, moglie di Collatino, nella tavola realizzata da Ercole de’ Roberti e Giovan Francesco Maineri nel 1490 c. (Galleria Estense di Modena).

Tre camicie ricamate da bimbo/a databili ai primi decenni del ‘500 sono conservate presso il Museo del Tessuto di Prato. Lo stile dei ricami è ispano-moresco, documentabile anche nel tardo XV in alcuni corredi.
Nel primo caso il filo usato per il ricamo è la seta rossa, nel secondo si tratta di cotone rosso e nel terzo di cotone blu; li si può osservare QUI [7].

Oltralpe, in particolare nell’area germanica, le plissettature erano molto frequenti nelle camicie.
Nell’Autoritratto di Durer del 1498, conservato al Museo del Prado di Madrid notiamo un caso di banda ricamata dorata, realizzata a parte e quindi applicata ad una camicia finemente plissettata.

Una testimonianza importante sul piano delle fonti dirette è costituita dai resti tessili rinvenuti presso il Castello di Lengberg, nel Tirolo Orientale, analizzati nel dettaglio da Beatrix Nutz (vedi QUI l’articolo How to pleat a shirt in the 15th century).

Note bigliografiche

[1] R. L. PISETZKY, Storia del costume in Italia, vol. II, Istituto Editoriale Italiano, Milano (1964), p. 285

[2] O. MORELLI, Fogge, ornamenti e tecniche. Qualche appunto sulla storia materiale dell’abito del Quattrocento, in Il costume al tempo di Pico e Lorenzo il Magnifico, a cura di A. FIORENTINI CAPITANI, V. ERLINDO e S. RICCI, Edizioni Charta, Milano (1994), p. 83

[3] R. L. PISETZKY, ivi, p. 363

[4] F. MARANGONI, XV secolo. L’abbigliamento femminile in Italia, Il Cerchio, Rimini (2016), nota 12 a p. 80

[5] O. MORELLI, ivi, p. 82

[6] E. POLIDORI CALAMANDREI, Le vesti delle donne fiorentine nel Quattrocento, Soc. An. Editrice “La Voce”, Firenze (1924), p. 102

[7] AA.VV., Tessuti serici italiani 1450-1530, Electa, Milano (1983); catalogo della mostra tenutasi al Castello Sforzesco di Milano dal 9 marzo al 15 maggio 1983, p. 149

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