Articolo di MARCO VIGNOLA
Pubblicato il 06.09.2016; tutti i diritti riservati.
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Una fonte di prim’ordine per la conoscenza della “cultura materiale” e per il ricostruttore storico più attento è certamente rappresentata dagli inventari. Questi elenchi all’apparenza sterili contengono infatti i nomi d’una miriade di antichi manufatti: nomi talvolta di chiara lettura ed interpretazione, ma altre volte assai meno trasparenti se non addirittura totalmente oscuri. Indulgendo alla terminologia archeologica, si può forse sostenere che il massimo pregio degli inventari, insieme alla ricchezza dei loro fenomeni lessicali, sia offerto dal contesto che essi rappresentano, cioè dal sottile filo rosso che lega l’uno all’altro gli oggetti menzionati in un insieme organico, rappresentato dalle necessità, dalle finanze e dal gusto degli antichi proprietari, oppure ispirato a più semplici motivi di ordine economico (si pensi, nel caso, agli elenchi mercantili).
Il limite maggiore quando s’incroci un inventario, ovviamente, è suggerito dalla difficoltà di restituire un corpo ed una immagine univoca a tutte le cose che vi si trovino elencate. Per scendere nel concreto, a ben poco servirebbe la lettura del vocabolo balista quando non si sappia che significa “balestra” e quando se ne ignorino le specifiche tecniche. Oltre la banalità dell’esempio (ben pochi sono coloro che non abbiano mai visto una balestra, se non altro perché la sua tradizione d’uso è giunta a noi senza strappi), ben più complessa è la situazione quando invece si affrontino parole di tutt’altra complessità, semanticamente riferite ad oggetti ormai dimenticati. Si pensi alle cosiddette coirace. Sebbene il termine evochi immediatamente, anche nei meno avvezzi alla materia, una qualche forma di difesa per il corpo del combattente, alla luce della documentazione possiamo tuttavia sostenere che le “corazze” delle carte medievali fossero qualcosa di ben più preciso: si trattava infatti di protezioni per il busto costituite da un insieme di placche o lamelle rivettate entro un supporto esterno di cuoio o di tessuto [vedi foto 1], veri e propri giubboni foderati di piastre del tutto caduti in desuetudine già dai primi anni del ‘600 e assai lontani da qualunque concetto difensivo di epoca contemporanea.
FOTO 1: Brigantina, Italia 1450-1470 c.; Museo della Caccia e del Territorio, Cerreto Guidi (FI)
. Ancora diverso, infine, è il caso di manufatti dotati di un “nome parlante”, cioè di un significante di chiara lettura e comprensione, per il quale la nostra immaginazione potrebbe tuttavia suggerire corrispondenze anacronistiche, almeno in assenza di specifici studi settoriali. E’ questo il caso del pectum ferreum dell’inventario riportato in appendice. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il latino, o semplicemente un orecchio abituato alle assonanze, vi leggerà agevolmente la citazione di un “petto di ferro”. Assuefatti sin dall’infanzia al mito delle armature “medievali”, potremmo a questo punto figurarci un manufatto magari corretto nei tratti generali, ma totalmente travisato nei suoi minuti dettagli strutturali, con un effetto deformante che ci allontanerebbe dalla realtà storica del nostro testo [per una corretta attribuzione si veda foto 2].
FOTO 2: Petto del c.d. “Maestro P”, Italia 1380 c.; ex Gwinn Collection
. In estrema sintesi, dunque, la puntuale decifrazione di un inventario può giungere soltanto da un virtuoso incrocio di fonti, ovvero da un lavoro interdisciplinare che faccia riferimento ad un insieme delle testimonianze materiali, iconografiche ed archeologiche organicamente assemblate per ricomporre un difficile mosaico. Data questa premessa di carattere generale e metodologico è ora tempo di virare bruscamente all’oggetto di questo contributo, cioè al Castello di Ranzo. Tale struttura, ora ridotta allo stato di rudere e sommersa dalla vegetazione, all’epoca della stesura dell’inventario in appendice rappresentava, insieme a Pieve di Teco e ad Albenga, uno dei tre capisaldi difensivi genovesi della Valle Arroscia (provincia di Savona). Questo ruolo di difesa attiva è pienamente confermato dalla presenza di due bombardelle, ovvero di due bocche da fuoco di calibro medio piccolo, corredate da 8 libbre di polvere nera (pulveris bombarde libras octo). Alle armi da fuoco, la cui prima diffusione tra le munizioni dei castelli genovesi si deve datare tra fine Trecento ed inizi Quattrocento, facevano da contrappunto 5 balestre da posta (balistas a turno ed a bussola), di formato più grande rispetto alle comuni balestre portatili (baliste a gamba). Le differenze, oltre che dimensionali, erano poi di carattere tecnico, perché le balestre da posta venivano tese con l’ausilio di argani o verricelli (turni), mentre quelle portatili si caricavano con un semplice gancio appeso alla cintura, chiamato crocco (crocho). Il loro munizionamento era dato dai verrettoni (veretoni), cioè da dardi forniti di una punta piramidale di sezione triangolare, particolarmente utili per sfondare le piastre delle armature metalliche. Di forma simile ma di ben maggior peso erano quindi i verrettoni a turno, destinati all’impiego sui citati balestroni da posta. Alle armi da lancio, che ovviamente rappresentavano il nerbo della difesa statica di ogni castello, facevano quindi da corollario alcune armi manesche. Si trattava nello specifico di due daghe (così ritengo debba interpretarsi correttamente il termine enses), di uno stocco, ovvero d’una spada dalla lama robusta destinata ad infliggere letali affondi (stocum), e di un roncone (ranconum), arma in asta dal ferro assai complesso, derivato dalle comuni roncole d’uso agricolo [vedi foto 3].
FOTO 3: Roncone, Italia 1480 c.;
collez. priv. [copyright M. Troso]
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Di un certo interesse sono quindi le protezioni per il corpo, rappresentate dalle coiracie e dal pectum ferreum delle quali si è poc’anzi ragionato, da due aderenti cervelliere (cervelerie) non più nuove (tales quales) a difesa della testa, da un gorzarino (corzarinus), sorta di collare in maglia di ferro a guardia della gola, da due tavolacci (tavolaci), semplici scudi in legno, e probabilmente da quel copum unum ferri che potrebbe forse intendersi (ma con qualche dubbio…) quale coppo di un vecchio elmo, secondo la consuetudine non rara di mantenere in uso anche elementi di non più fresca produzione.
La scorta alimentare nel caso di Ranzo non era poi delle più varie e si basava essenzialmente su un ragguardevole quantitativo di frumento, in grani (oltre 2500 kg!) ed in farina, nonché da qualche fava e da molto aceto.
Il mobilio, a meno di omissioni da parte del redattore dell’inventario, forse più interessato all’aspetto bellico della dotazione, parrebbe infine limitato ad un letto (lectera), corredato di un materasso (mataracium), e ad un mulino a mano (molendinum) per la macinazione del grano non stoccato in forma di farina.
La sensazione che si ricava in filigrana all’elenco inventariale, dunque, è quella di una struttura militare in piena attività, capace di un discreto volume di fuoco in caso d’attacco. La presenza delle bombardelle, in particolare, testimonia una certa attenzione da parte genovese all’aggiornamento delle dotazioni belliche e può essere assunta ad indice ulteriore di vitalità militare. Gli elementi d’armamento individuale potevano alla bisogna servire a munire almeno 3 difensori o ad integrare l’equipaggiamento dei professionisti inviati da Genova a presidio della fortificazione. La presenza del letto (verosimilmente indirizzato al castellano, perché ai soldati comuni dovevano toccare sistemazioni ben più precarie…), getta infine un po’ di luce sulla funzione residenziale dell’edificio, non solo centro di controllo militare del territorio, ma nondimeno luogo di vita quotidiana, la cui memoria giace ormai ridotta a radi muri sbrecciati ed alla lettera di pochi inventari scampati alla deriva dei secoli.
In ultima istanza, possiamo ancora osservare come nonostante questo inventario risalga ad almeno un quarantennio prima del nostro periodo di riferimento, il quadro generale non è troppo dissimile da una fortificazione della seconda metà del XV secolo, sulla scorta di altre fonti più prossime all’epoca ritratta dall’Associazione Culturale IMAGO ANTIQUA. A livello terminologico, infatti, si riconoscono i medesimi lemmi; se a mutare erano forma e stile dei manufatti, nell’asciutto linguaggio notarile di questi cambiamenti non si trova traccia.
Archivio di Stato di Genova, A.C. 338, c.XXVII v.
MCCCCXXIIII
Marcus de Confaroneriis de Cozio, castellanus roche Rancii, debet / dare pro munitionibus ei consignatis tam pro illustrissimo domino / domino .. duce Mediolani ac Ianue domino et cetera, quam pro magnifico comune Ianue / ut infra, videlicet:
Primo frumenti minas decem octo
Item farine frumenti rubia LIIII et libras VII
Item frumenti steria viginti quartaria III /et mutrum unum quod est in numero fabarum sive leguminum [nota 1]
Item bombardellas duas
Item balistas a bussola cum copertis sine manicis tres
pro suprascriptis balistis tribus, bussolas tres
Item balistam unam a gamba
Item balistas tres tales quales fractas
Item crochos novos IIIIor [nota 2]
Iter [nota 3] turnum unum bonum
Item alium turnum talem qualem
Item veretonorum pauci valoris capsiam unam cum dimidia
Item veretonos a turno LXVIII
Item coiracias tres pauci valoris
Item coiraciam unam bonam cum uno corzarino
Item enses duos tales quales
Item stocum unum
Item tavolacios duos
Item copum ferri unum
Item pectum ferreum unum
Item molendinum unum novum
Item cervelerias duas tales quales
Item pulveris bombarde libras octo
Item ranconum unum ferri bonum et pulcrum
Item lecteram unam
Item mataracium unum
Item balistas duas a turno cum suis manicis
Item de novo mezarolas acceti novem et quartinos XVII
[nota 1] a lato, tra le due righe, aggiunto “minus VII”
[nota 2] “or” sovrascritto su IIII
[nota 3] così nel testo
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NOTA BENE – Il presente articolo è una riedizione opportunamente emendata di quanto già edito sulla rivista Anthia (2007).