Articolo di ANDREA CARLONI
Pubblicato il 12.04.2023; tutti i diritti riservati.

Dalle citazioni di camicie rinvenute da Oreste Delucca in inventari relativi a case cittadine del territorio riminese, spaziando dal 1430 al 1500 circa, emerge sovente una distinzione tra camicia da uomo, da donna o da bambino/a, tuttavia non è agevole ricostruire documentariamente le caratteristiche dell’una o dell’altra.

Cfr. O. DELUCCA, La casa riminese nel Quattrocento. La casa cittadina, vol. 2, Stefano Patacconi Editore, Rimini (2006), p. 1904

Per via iconografica siamo in grado di desumere una lunghezza differente: nel caso dell’uomo è raro che scendesse oltre il ginocchio, mentre per le donne di norma arrivava fino alle caviglie.
In entrambi i sessi la camicia fa capolino allo scollo e ai polsi e, laddove presenti, fuoriesce più o meno abbondantemente dalle “finestrelle”, aperture nell’abito poste lungo gli avambracci, in corrispondenza dei gomiti, delle spalle oppure dell’incavo delle ascelle.

Le maniche sono più o meno aderenti, variando anche in ragione della foggia dell’ “abito per di sopra”, poichè la presenza di finestrelle richiede un maggior panneggio; nel Sud Italia, a Napoli in particolare, dove più forte fu l’influsso della moda ispano-moresca, si giunse alle esagerazioni più evidenti in larghezza [1].

I documenti ci aiutano a chiarire quali fossero i tessuti in cui erano usualmente confezionate le camicie: si tratta di lino, canapa o cotone (non pervenuta la seta, almeno allo scrivente).
Secondo i nostri progenitori, le prime due fibre menzionate erano ritenute le più adatte in assoluto per via della connaturale proprietà di “immunizzare” chi le indossava; addirittura, era grazie ad esse che l’uomo poteva preservarsi “vigoroso nel seme” [2].

Piero della Francesca, Sollevamento della Croce, c. 1466, Basilica di San Francesco, Arezzo (fonte: www.travelingintuscany.com)

Rosita Levi Pisetzky, un’autorità nel campo del costume antico, scrive che nel Quattrocento «le camicie dei ricchi, soprattutto verso la fine del secolo, sono di finissima tela ‘de olanda subtile’, di rensa (ndr, deriva dalla città di Reims) o di Cambrai (ndr, città francese posta all’estremo nord-est, quasi al confine con il Belgio), si ornano di increspature al collo e ai polsi, e di liste d’oro, o di quei caratteristici ricami neri che fanno data. Proprio nell’ultimo decennio abbiamo qualche primo esempio di trina» [3].

In ambito sforzesco si documenta anche la tela renana (“del Reno”, quindi tedesca): nel corredo di Drusiana Sforza (1463) compaiono 40 camicie con questo tessuto, mentre sono ben 90 quelle appartenute a Bianca Maria Sforza (1493) [4].

Qualità e resistenza erano le priorità ricercate in questo indumento, per quanto i filati fossero più o meno raffinati, sottili o trasparenti, a seconda delle condizioni sociali.

Maestro delle Storie di Griselda, Storie della paziente Griselda (dettaglio), 1494 circa, National Gallery di Londra (inv. NG913)

Secondo Ornella Morelli, nel caso della gioventù maschile, in special modo a fine ‘400, alcuni commentatori attestano l’utilizzo di un tessuto più spartano e ruvido (“tela da sciugatoi”), una variante che, in conformità a certi canoni di educazione del tempo, avrebbe contribuito a rafforzare lo stereotipo di virilità maschile.
Osserva inoltre la studiosa «(…) la camicia appare come una tipica faccenda familiare. E’ infatti al riparo dalle mura domestiche che sembra si compia, tutto o in gran parte, il suo ciclo di lavorazione. “Per meglio servire le necessità virili” esso inizia dalla “compera” della matassa di lino, prosegue con le operazioni squisitamente casalinghe della filatura e tessitura e si conclude infine con la costruzione diretta o indiretta del capo, affidata talora alla diligenza di serve e “ischiave tenute per cucire” oppure “ordinata” di fare a non meglio identificati operatori esterni, anche se sempre sotto la “industria e sollecitudine”, la “discrezione e vigilanza” delle madri di famiglia e delle “femine di casa”» [5].

Nel corso del XV secolo, le camicie, sia maschili che femminili, in Italia si presentano in maggioranza piuttosto sobrie. Laddove presenti, con maggior enfasi nel momento del passaggio di secolo, decori ed abbellimenti si sostanziano in ricami (dorati, colorati o neri), intrecci di fili dorati o serici e trine/merletti.
L’ingresso nel pieno Rinascimento registra un incremento in termini di increspature ai polsi e allo scollo: come osservato dal Polidori Calamandrei, ciò gradualmente porterà allo sviluppo delle “gorgere” [6].

La camicia di Maria Maddalena ritratta da Carlo Crivelli nel 1480 c. (Rijksmuseum di Amsterdam, inv. SK-A-3989) esibisce delicate trine a traforo.

Si tratta di un leitmotif di questo artista, considerato che si trova anche in un’altra Maddalena, quella del Polittico di Montefiore, datato 1472 (Convento di S. Francesco, Montefiore dell’Aso, prov. AP).

Un altro probabile esempio di trine è rappresentato da Domenico del Ghirlandaio nel Ritratto di donna con paesaggio datato 1480-1485 c. (Lindenau-Museum di Altenburg).

E’ ricamata allo scollo, con leziosi motivi in semitrasparenza, la camicia indossata da Lucrezia, moglie di Collatino, nella tavola realizzata da Ercole de’ Roberti e Giovan Francesco Maineri nel 1490 c. (Galleria Estense di Modena).

Tre camicie ricamate da bimbo/a databili ai primi decenni del ‘500 sono conservate presso il Museo del Tessuto di Prato. Lo stile dei ricami è ispano-moresco, documentabile anche nel tardo XV in alcuni corredi.
Nel primo caso il filo usato per il ricamo è la seta rossa, nel secondo si tratta di cotone rosso e nel terzo di cotone blu; li si può osservare QUI [7].

Oltralpe, in particolare nell’area germanica, le plissettature erano molto frequenti nelle camicie.
Nell’Autoritratto di Durer del 1498, conservato al Museo del Prado di Madrid notiamo un caso di banda ricamata dorata, realizzata a parte e quindi applicata ad una camicia finemente plissettata.

Una testimonianza importante sul piano delle fonti dirette è costituita dai resti tessili rinvenuti presso il Castello di Lengberg, nel Tirolo Orientale, analizzati nel dettaglio da Beatrix Nutz (vedi QUI l’articolo How to pleat a shirt in the 15th century).

Note bigliografiche

[1] R. L. PISETZKY, Storia del costume in Italia, vol. II, Istituto Editoriale Italiano, Milano (1964), p. 285

[2] O. MORELLI, Fogge, ornamenti e tecniche. Qualche appunto sulla storia materiale dell’abito del Quattrocento, in Il costume al tempo di Pico e Lorenzo il Magnifico, a cura di A. FIORENTINI CAPITANI, V. ERLINDO e S. RICCI, Edizioni Charta, Milano (1994), p. 83

[3] R. L. PISETZKY, ivi, p. 363

[4] F. MARANGONI, XV secolo. L’abbigliamento femminile in Italia, Il Cerchio, Rimini (2016), nota 12 a p. 80

[5] O. MORELLI, ivi, p. 82

[6] E. POLIDORI CALAMANDREI, Le vesti delle donne fiorentine nel Quattrocento, Soc. An. Editrice “La Voce”, Firenze (1924), p. 102

[7] AA.VV., Tessuti serici italiani 1450-1530, Electa, Milano (1983); catalogo della mostra tenutasi al Castello Sforzesco di Milano dal 9 marzo al 15 maggio 1983, p. 149